La Delegazione della Tuscia e Sabina celebra la Pasqua di Risurrezione

La Delegazione della Tuscia e Sabina del Sacro Militare Ordine Costantiniano ha coronato la sua partecipazione alle celebrazioni della...

La Delegazione della Tuscia e Sabina del Sacro Militare Ordine Costantiniano ha coronato la sua partecipazione alle celebrazioni della Settimana Santa [QUI e QUI], assistendo alla solennità della Pasqua di Resurrezione nella Chiesa della Trinità in Viterbo.

I Cavalieri hanno prestato servizio liturgico all’altare, offrendo anche il cero pasquale, ornato con lo stemma costantiniano, e un omaggio floreale alla Madonna Liberatrice, Patrona della Delegazione.

Il 16 novembre 1955, con un Decretum generale e l’annessa Instructio, Papa Pio XII istituì il nuovo Ordo della Settimana Santa, valevole per il Rito romano, stabilendo che esso sarebbe entrato in vigore nella Pasqua del 1956; Sono dunque passati 68 anni da quella disposizione, certamente coraggiosa, con la quale è iniziata di fatto quella riforma della liturgia romana che poi sarebbe stata portata avanti dal Concilio Vaticano II con la Costituzione sulla Sacra Liturgia Sacrosanctum Concilium del 4 dicembre 1963.

L’importanza della nuova riforma liturgica andava ricercata soprattutto in «motivi di natura pastorale, per riportare cioè la massa dei fedeli alla celebrazione dei santissimi misteri della passione e morte del Salvatore». Dalla fine del sec. XVI in poi, da quando cioè San Pio V, attuando le prescrizioni del Concilio di Trento in materia liturgica, pubblicava nel 1568 il Breviario romano riformato e nel 1570 il Messale romano, non vi è forse, nella storia liturgica, un fatto che possa uguagliare, per importanza, quel Decreto della Sacra Congregazione dei Riti.

La Settimana Santa così ristabilita da Papa Pio XII è, a parte la lingua latina, sostanzialmente identica a quella che conoscono gli attuali fedeli di Rito romano. Va infatti ricordato che prima del 1956 la liturgia del Triduo pasquale, compresa quella del Sabato Santo, era celebrata solo di mattina. La riforma invece volle che i riti fossero celebrati negli stessi giorni e possibilmente nelle stesse ore in cui erano avvenuti i misteri da essi ricordati. In particolare, al termine del Sabato Santo, giorno di «sommo lutto», dedicato ancora alla meditazione della passione e morte del Redentore, fu reintrodotta la Veglia pasquale, in modo da far coincidere l’inizio della Messa con la mezzanotte tra il sabato e la domenica. Ora, per comprendere meglio il senso di quella riforma, intendiamo riproporre alcune note attinte dai primi secoli, non in modo sistematico, ma sufficiente a dare un’idea di come veniva vissuta la Pasqua dai Padri della Chiesa.

La Veglia pasquale è il culmine di tutta la Settimana Santa. La Pasqua ebraica era una festa annuale, che cadeva sempre il 14 del mese primaverile di Nisan ed era localizzata necessariamente a Gerusalemme, ma la Pasqua cristiana non fu vincolata a quell’unica data e a quell’unico luogo. In realtà, il più attestato ciclo liturgico cristiano è quello settimanale, come si evince già dal Nuovo Testamento. Esso era collegato con la santa Cena, memoriale della passione e risurrezione del Signore, celebrata in un clima di fervida attesa del suo ritorno nella gloria (cfr 1 Cor 11,26).

Questo primo giorno della settimana venne ben presto indicato come «giorno del Signore», o «domenica», quando tutta la comunità si riuniva per «spezzare il pane [con letizia e semplicità di cuore» (At 2,46). Si legge in Didaché 14,1: «Ogni domenica, giorno del Signore, riunendovi spezzate il pane e fate l’eucaristia, dopo aver confessato i vostri peccati, affinché il vostro sacrificio sia puro». Tuttavia, questa «Pasqua settimanale» non soppiantò la celebrazione della Pasqua annuale. In effetti, i primi cristiani, tutti di origine o di cultura ebraica, non fecero un vuoto dietro di sé, come se si fossero distaccati dalle loro radici, ma continuarono a celebrare la Pasqua ebraica, dandole un significato nuovo, come mostra un testo di Paolo, scritto verso l’anno 53: «Cristo, nostra Pasqua, è stato immolato! Celebriamo dunque la festa non con il lievito vecchio, né con lievito di malizia e di perversità, ma con azzimi di sincerità e di verità» (1 Cor 5,7-8).

Ma, a parte questa affermazione di Paolo, i documenti che attestino indubitabilmente una Pasqua cristiana non sono molti. La più antica testimonianza si trova nella Epistula Apostolorum, della metà del II secolo. Essa presenta i discepoli che celebrano la Pasqua durante una «notte di veglia», per commemorare la morte del Signore, che viene considerato risorto e vivente. Vi è detto che al canto del gallo la veglia si dovrà concludere con l’agapē, cioè con l’Eucaristia, che dovrà essere celebrata fino alla parusia. La celebrazione della Pasqua dunque era tutta concentrata nella Veglia pasquale, come testimonia indirettamente anche Tertulliano.

Alla Veglia si arrivava preparati con un digiuno, in ottemperanza alla parola di Gesù: «Verranno giorni quando lo sposo sarà loro tolto: allora, in quel giorno, digiuneranno» (Mc 2,20 e par.). La durata e la forma di tale digiuno potevano variare da regione a regione. In varie Chiese invalse l’uso di un digiuno preparatorio di 40 giorni (Quaresima), a imitazione di quello praticato dal Signore, escludendo però dal digiuno il sabato e la domenica. In altre Chiese, il digiuno pasquale cominciava sei giorni prima della domenica di Pasqua, dando inizio alla «Settimana grande della Passione». Certamente il digiuno diventava obbligatorio a partire dalla Parasceve e per tutto il sabato, fino alla Veglia pasquale inclusa.

Essendo una cerimonia notturna, la Veglia pasquale era illuminata non solo dalla luna piena, ma anche dalle lampade e dai ceri accesi, portati dai fedeli o posti nella chiesa. Cromazio di Aquileia († 407), nella prima delle due omelie tenute nella notte pasquale, allude a questa pratica: «Questa veglia è superiore a tutte le altre veglie, perché è chiamata veglia del Signore (cfr Es 12,42), nella quale egli ha illuminato non solo questo mondo, ma anche coloro che erano negli inferi». E più avanti scrive: «Giustamente dunque questa notte è chiamata veglia del Signore, poiché è celebrata in tutto il mondo in onore del suo nome. Tante sono le preghiere dei singoli, quanti sono i desideri; tanti i loro ceri accesi, quanti i voti dei meriti. Le tenebre della notte sono vinte dalla luce della devozione». Zenone di Verona (380 circa) parla di «dolce veglia di una notte luminosissima per il suo proprio sole». Agostino ha pronunciato molte omelie per la Veglia, che chiama «la madre di tutte le veglie». Queste omelie menzionano spesso le lampade accese, citando anche quel celebre versetto del salmo: «E la notte sarà luminosa come il giorno» (Sal 138,12). È probabile che l’accensione delle lampade fosse accompagnata da un rito, che poi si svilupperà in un vero e proprio lucernario, con la benedizione del nuovo fuoco. Verso la fine del IV secolo, in Occidente invalse l’uso di accendere un grande cero pasquale, oggetto di una laus, o preconio pasquale, in collegamento con il fonte battesimale. Ne abbiamo un esempio nell’Exultet, attribuito a sant’Ambrogio, o per lo meno ispirato da lui. Il preconio era cantato da un diacono, e Agostino attesta che una volta toccò a lui cantarlo.

La celebrazione poteva essere introdotta da un praeconium o prae­fatio pascalis, come lo troviamo in Zenone di Verona. La Veglia pasquale certamente comprendeva letture dell’Antico Testamento, in particolare Gen 1 (creazione) , Es 12 (agnello pasquale), Es 14-15 (uscita dall’Egitto), ma anche Gen 22 (sacrificio di Isacco) e forse anche Dt 32 (cantico di Mosè) ed Ez 37 (ossa aride). Tra le letture del Nuovo Testamento, figuravano certamente 1 Cor 5,7-8 e, naturalmente, uno dei Vangeli delle apparizioni del Risorto. L’omelia poteva precedere o seguire le letture, oppure entrambe le cose.

La maggior parte delle omelie pasquali dal II al V secolo, dato il loro legame con la liturgia, rispecchiano sempre la primitiva concezione della Pasqua cristiana, nella quale veniva celebrato tutto il mistero di Cristo: dall’incarnazione alla passione e morte, inclusa la discesa agli inferi, per sfociare nella risurrezione e ascensione al cielo, con il tempo di Pentecoste (sette settimane). Il termine stesso di pascha è però riservato alla Vigilia e al giorno di Pasqua, come in questo passo di Agostino: «Poiché il Signore nostro Gesù Cristo, il giorno che aveva reso luttuoso con la sua morte, lo ha reso glorioso con la sua risurrezione, rievocando entrambi i momenti in questa solenne memoria, vegliamo ricordando la sua morte e gioia­mo ricevendo la sua risurrezione. Questa è la nostra festa annuale e la nostra Pasqua, non figurata come per l’antico popolo nell’uccisione di una pecora, ma realizzata come per il popolo nuovo nella vittima che è il Salvatore. Sì, Cristo, nostra Pasqua, è stato immolato (1 Cor 5,7), e le cose vecchie sono passate, ed ecco sono diventate nuove (2 Cor 5,17)».

Dopo l’omelia, venivano amministrati i battesimi, come attesta Tertulliano: «La Pasqua offre il giorno più solenne per il battesimo, perché in quel giorno si è compiuta la passione del Signore, nella quale siamo battezzati». I battesimi, amministrati prevalentemente a persone adulte, poiché prevedevano un’immersione in una vasca, non avvenivano in chiesa, ma in un edificio adiacente, il battistero, situato vicino all’ingresso. Abbiamo la più antica descrizione dei riti battesimali nella Tradizione apostolica di Ippolito. Si dispone che i candidati facciano un bagno il giovedì, digiunino il venerdì e si riuniscano attorno al vescovo il sabato, pregando in ginocchio. Essi trascorreranno «tutta la notte» tra letture e istruzioni. Al canto del gallo, quindi dopo la mezzanotte, hanno luogo i battesimi, dopo i quali i neofiti passano dal battistero alla chiesa, dove per la prima volta si uniscono agli altri fedeli per l’Eucaristia. Alla comunione, oltre al pane e al vino consacrati, essi ricevono anche latte e miele, simboli della Terra promessa. Secondo Odo Casel, i riti lì riportati sono certamente presi dalla liturgia pasquale: «Pasqua e battesimo sono legati insieme. È talmente scontato che il battesimo sia conferito a Pasqua che essa non è neppure nominata». A Milano, ad Aquileia e in Africa (ma non a Roma) il battesimo era seguito dal rito della lavanda dei piedi, sempre nel battistero, con la lettura di Gv 13,1-20. Dopo di che i neobattezzati, rivestiti di una veste bianca, entravano processionalmente in chiesa, tra la gioia degli altri fedeli, che vedevano così accrescere la loro comunità.

Il culmine della notte pasquale si situa nell’Eucaristia, che viene celebrata allo spuntare del giorno. Lo si deduce dall’esordio dell’omelia pasquale attribuita a Ippolito: «Ecco, già brillano i sacri raggi della luce di Cristo, albeggiano i puri lumi dello Spirito puro, si spalancano i tesori celesti della gloria e della divinità. La notte immensa e nera è stata inghiottita, la tenebra impenetrabile è dissolta in se stessa e la triste ombra di morte è stata oscurata. La vita si è diffusa su tutte le cose e tutto è ripieno della luce infinita, un’aurora perenne occupa l’universo e colui che è prima della stella mattutina e degli astri, immortale e immenso, grande risplende Cristo su tutte le cose più del sole».

Con la Pasqua inizia il tempo della santa allegrezza dei 50 giorni della Pentecoste. Essa era considerata «la grande domenica»: «Il giorno di Pentecoste, da intendersi nel senso di una grande domenica che si estende per sette settimane, è prefigurato nell’Antico Testamento dalla festa delle settimane. Essa è simbolo del mondo futuro in cui i cristiani, migrati da questo mondo, parteciperanno con Cristo alla festa immortale». Questo tempo era caratterizzato da preghiere e canti gioiosi, come l’acclamazione del Alleluia. Per tutto questo tempo, la preghiera liturgica era fatta in piedi ed era escluso l’inginocchiarsi: «Il non piegare le ginocchia nella domenica [di Pasqua] è simbolo della risurrezione, attraverso la quale, per grazia di Cristo, siamo stati liberati dai peccati e dalla morte, che in lui è stata uccisa. Tale consuetudine ha avuto inizio fin dai tempi apostolici, come dice il beato Ireneo, martire e vescovo di Lione, nel trattato Sulla Pasqua, in cui ricorda anche la Pentecoste, nella quale non pieghiamo le ginocchia perché ha la stessa importanza del giorno della Domenica [di Pasqua], per il motivo che abbiamo detto a proposito di essa» Questo uso liturgico è attestato anche da Tertulliano: «Noi consideriamo che non ci è permesso digiunare o pregare in ginocchio di domenica. La stessa astensione la pratichiamo con gioia dal giorno di Pasqua fino alla Pentecoste».

Il tempo pasquale, che si prolunga per 50 giorni (sette volte sette giorni), è la Pentecoste, che non è solo l’ultimo giorno, ma l’insieme dei 50 giorni. Infine, tutta la Veglia aveva una forte accentuazione escatologica, come attesta Girolamo: «Vi è una tradizione dei giudei secondo la quale il Messia verrà nel mezzo della notte, a somiglianza del tempo dell’Egitto, quando fu celebrata la Pasqua e venne lo sterminatore e il Signore passò sopra le case, e gli stipiti delle nostre fronti furono consacrati con il sangue dell’agnello. Da qui ritengo che sia rimasta la tradizione apostolica che nella veglia di Pasqua non si congedi il popolo prima della mezzanotte, in attesa della venuta di Cristo, e solo dopo essersi assicurati che sia trascorsa, fare festa tutti insieme». Solo nella seconda metà del IV secolo la celebrazione pasquale iniziò a comportare, oltre all’Eucaristia vigiliare, anche una Messa nel giorno di domenica, che divenne più specificamente il giorno della risurrezione.

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