Su invito della Diocesi di Viterbo, una rappresentanza della Delegazione della Tuscia e Sabina del Sacro Militare Ordine Costantiniano di San Giorgio, guidata dal Delegato, il Nob Avv. Roberto Saccarello, Cavaliere di Gran Croce Jure Sanguinis con Placca d’Oro, venerdì1 4 luglio 2023 a Bagnoregio ha preso parte alla tradizionale processione serale in devozione al grande santo di Bagnoregio e del principale patrono della Città, l’eccelso filosofo e teologo francescano San Bonaventura, Dottore della Chiesa, che estende la sua mano benedicente su ognuno di noi. L’inverare il pellegrinaggio mistico nell’amore del Cristo crocifisso pone San Bonaventura tra i grandi mistici nella storia dello spirito umano. Il suo misticismo non è un distacco dal mondo, ma un rivelarlo nella sua bellezza e verità.
I Cavalieri Costantiniani hanno prestato la scorta d’onore al Cardinale Fortunato Frezza, originario del territorio bagnorese.
Al termine della processione il Porporato ha impartito la benedizione con l’insigne reliquia di San Bonaventura, costituita da un frammento di osso del braccio del santo, inserito in un reliquiario in oro argento a forma di braccio, donato alla città dal Re di Francia Carlo VIII nel 1490.
Il 14 marzo 1490 Carlo VIII fece eseguire una ricognizione solenne dei resti di San Bonaventura sepolto a Lyon, alla presenza di numerosi vescovi e dignitari. Prima di ricomporli nel sepolcro, distribuì alcune reliquie a varie personalità. L’osso del braccio destro fu destinato a Bagnoregio, dove il 1° maggio 1491 fu portato dal Vescovo di Vienne (nel Delfinato, attuale dipartimento dell’Isère in Francia), Angelo De Catonis assieme al Ministro Generale dei francescani, Francesco Sansone.
Nel 1494 Carlo VIII fece costruire un piccolo oratorio nella chiesa dei francescani di Lyon e vi fece portare i resti di San Bonaventura, collocate in casse di cedro e avvolte in drappi di seta con frange d’oro. Trattenne una reliquia del santo (una mascella), conservata in Fontainebleau, poi donata nel 1662 al convento dei francescani di Parigi. Nel 1495 Pietro II di Borbone, reggente durante l’assenza di Carlo VIII, guarnì la cassa contenente le reliquie del santo con lamine di oro e di argento. Sua consorte la Regina fece collocare la testa del santo in una lussuosa teca d’argento in forma di busto. Nel 1562, prima che gli ugonotti invadessero il convento nella notte del 30 aprile, i frati fecero in tempo a nascondere i resti di San Bonaventura interrandole in una buca dell’orto, assieme a oggetti e vesti sacre di valore. Gli eretici trovarono il nascondiglio degli oggetti preziosi e della cassa con le ossa del santo, che bruciarono in piazza e dispersero le ceneri nel Rhône. Il busto con la testa del santo, sfuggita agli ugonotti, scomparve durante la rivoluzione francese. Così, oggi il Santo Braccio di Bagnoregio è l’unica delle reliquie rimaste di San Bonaventura. Si trova custodito nella terza cappella sul lato destro della navata della Concattedrale dei Santi Nicola, Donato e Bonaventura, che fu visitata da Papa Benedetto XVI il 6 settembre 2009.
L’antica Diocesi di Bagnoregio
La Diocesi di Bagnoregio è stata estinta con bolla di Papa Giovanni Paolo II del 27 marzo 1986 ed il suo territorio è stato unito alla Diocesi di Viterbo. La chiesa dedicata ai Santi Nicola, Donato e Bonaventura è attualmente Concattedrale di Bagnoregio. È situata sulla piazza principale del borgo che si è sviluppato con il progressivo abbandono dell’antico borgo di Civita di Bagnoregio a seguito del rovinoso terremoto del 1695. L’attuale edificio è a navata unica con cappelle laterali ed abside ed è frutto di successivi interventi di ampliamento che si sono succeduti nel tempo dopo la sua erezione a Cattedrale di Bagnoregio nell’anno 1699. La chiesa si affaccia sulla piccola Piazza Cavour e sul lato sinistro della facciata di erge la torre campanaria costruita alla metà del XVII secolo.
San Bonaventura da Bagnoregio
San Bonaventura da Bagnoregio visse a cavallo della metà del XIII secolo, in un’epoca in cui la fede cristiana, penetrata profondamente nella cultura e nella società dell’Europa, ispirò imperiture opere nel campo della letteratura, delle arti visive, della filosofia e della teologia. Tenendo presente velocemente le condizioni ambientali di quel torno di tempo, di rinnovamento e di crisi, colpisce la sicurezza con cui Bonaventura affronta le varie situazioni con grande carattere e sicura certezza, manifestando uno spirito perfettamente guidato da un fine ben determinato, ossia l’amore di Dio e le vie che a Dio conducono, specialmente con la scienza della teologia.
Per realizzare tale fine, Bonaventura non esita ad accogliere sia dai pensatori precedenti sia dai contemporanei tutto ciò che gli permette di realizzare il suo disegno, permettendogli di formarsi un pensiero proprio e autonomo, il cui tono e carattere non è prescindibile dalla preoccupazione di guida intellettuale dell’Ordine francescano e del legame fideistico e mistico insieme. E questo spiega il motivo per cui la fede e la certezza assoluta del dato rivelato sono alla base della sua esperienza intellettuale e spirituale sempre finalizzata all’amore di Dio, la cui bontà e bellezza si manifestano nel grande libro del creato, le cui pagine sono penetrate di significati e di simboli della bontà di Chi l’ha “scritto”. Lettura già fatta poeticamente da Francesco d’Assisi nel suo Cantico delle creature.
La vita
Nato probabilmente nel 1217 a Bagnoregio, che sorge sulla cima di un colle vicino al lago di Bolsena, minacciato da continue frane, e per questo è detto “la città che muore”. Il suo nome di battesimo è Giovanni, come quello del padre, Giovanni di Fidanza, medico di professione. Quando entrò nell’Ordine minoritico, a Parigi nel 1243, prese il nome di Bonaventura. Sua madre, Maria di Ritello, era una donna semplice pia e devota di San Francesco d’Assisi. Non sembra verosimile che Bonaventura abbia conosciuto personalmente San Francesco. L’episodio della sua guarigione miracolosa per intercessione di San Francesco è posteriore alla morte dell’Assisiate.
La prima formazione culturale l’ha ricevuta nel suo paese nativo, presso il locale convento dei frati minori, secondo l’uso del tempo. A diciotto anni, verso il 1235, si recò a Parigi per frequentare la Facoltà delle Arti di quella Università, ritenuta la “culla degli studi”. A Parigi conobbe Alessandro di Hales: Maestro nella facoltà delle arti, prima del 1210; poi Maestro di teologia (negli anni 1229-31); entrato nell’Ordine francescano (1235-36) assicurò all’Ordine la prima cattedra nello studio parigino (una seconda cattedra l’Ordine l’avrà poi con Giovanni de la Rochelle, nel 1238).
Probabilmente, l’esempio e l’influenza di Alessandro di Hales furono l’occasione per Giovanni di Fidanza di farsi francescano ed entrare nello studium (scuola interna) dei Minori di Parigi. Così, dopo il conseguimento del titolo di magister artium (1235-1243), entrò nell’Ordine nel 1243 e iniziò contemporaneamente gli studi di Teologia presso lo studium minoritico. Nel 1244, dopo il noviziato trascorso nel convento di Parigi, entrò definitivamente nell’Ordine, con il nome di frate Bonaventura, ascritto alla Provincia romana dalla quale proveniva per nascita.
Nel 1248, dopo i cinque anni di teologia, conseguì il titolo di baccalaureus biblicus, con i maestri francescani Alessandro di Hales e Giovanni de la Rochelle (che entrambi morirono nel 1245), e poi di Eudes Rigaud (che nominato arcivescovo nel 1247, lasciava l’insegnamento) e di Guglielmo di Melitone, sotto la cui guida fu incaricato della “lettura cursoria”, ossia in senso letterale della Bibbia. Dopo questo biennio di tirocinio, Bonaventura conseguì, nel 1250, il grado di baccalaureus sententiarius; e nei due anni successivi cominciò le sue lezioni sulle Sententiae di Pietro Lombardo. Il risultato di queste lezioni fu la stesura del Commentarius in quattuor libros Sententiarum, la più monumentale delle sue opere.
Sembra abbastanza significativo ricordare che Alessandro di Hales sia stato il primo maestro ad adottare le Sententiae di Pier Lombardo come libro di testo nella facoltà di teologia, che, ben presto, divenne il testo ufficiale della stessa facoltà di teologia. Questa importante introduzione significò dare un’impostazione sistematica allo studio della teologia, e, di conseguenza, anche un carattere formale di scienza. Secondo lo schema già presente nel testo di Pier Lombardo, i quattro libri, di cui si compone l’opera, espongono gli argomenti nel seguente ordine: Dio (vol I: de Dei unitate et trinitate); Creazione e Uomo (vol II: de rerum creatione et formatione corporalium et spiritualium); Redenzione (vol III: de incarnatione et humani generis reparatione); e Sacramenti e Giudizio finale (vol IV: de sacramentis et novissimis).
Lotta contro gli ordini mendicanti
Alla fine dell’anno accademico 1252, Bonaventura avrebbe dovuto conseguire la licentia docendi in teologia. Ma proprio in quell’anno scoppiò la terribile lotta dei maestri secolari contro le scuole e i maestri degli ordini mendicanti; di conseguenza, per un certo periodo, i maestri “regolari” (o religiosi), non furono riconosciuti ufficialmente dall’Università.
L’ostilità affonda le radici nel secolo XII, quando la concezione ecclesiale altomedievale si era espressa contro i movimenti religiosi popolari e pauperistici, condannandoli come eretici. La nuova politica di Papa Innocenzo III, invece, li aveva inseriti nel corpo vivo della Chiesa, alle dirette dipendenze del papato. In seguito, le continue esenzioni e i privilegi accordati dai papi agli Ordini mendicanti non solo avevano intaccato il prestigio e il potere del clero diocesano, ma gli procurarono anche dei danni economici. E quando gli Ordini mendicanti penetrarono nell’Università e costituirono proprie scuole, l’ostilità del clero crebbe a dismisura, tanto che spesso scoppiavano delle crisi interne alla stessa Università.
Diversi fattori fecero precipitare la situazione. Nel 1252, l’Università aveva deciso di ridurre il numero delle cattedre destinate ai maestri “regolari”, riconoscendone solo una per i due ordini mendicanti. L’anno successivo, a causa di una dura rappresaglia da parte della polizia parigina ai danni di alcuni studenti, l’Università proclamò uno sciopero, al quale però i maestri degli ordini mendicanti non aderirono per disposizione dei superiori, e la tensione aumentò. L’Università pretese che tutti i suoi membri si impegnassero per giuramento a osservare i suoi Statuti, e, poiché i maestri mendicanti rifiutarono di giurare, vennero esclusi dal Consiglio universitario.
La tensione tra i maestri secolari e gli Ordini mendicanti si acuì maggiormente, nel 1254, quando il francescano Gerardo di Borgo San Donnino pubblicò la Concordia Novi et Veteris Testamenti di Gioacchino da Fiore, premettendo a essa un Liber introductorius in evangelium aeternum, in cui annunciava l’avvento di una “nuova età dello Spirito Santo” e di una “Chiesa cattolica puramente spirituale fondata sulla povertà”, profezia che si doveva realizzare – secondo Gioacchino da Fiore – attorno al 1260.
I maestri secolari, oltre denunciare la pubblicazione di Gerardo al Papa Innocenzo IV, chiesero anche la revoca di tutti i privilegi agli Ordini mendicanti. In conseguenza di questo, il Papa annullò i privilegi concessi agli Ordini mendicanti. E il nuovo papa Alessandro IV condannò il libro di Gerardo con la lettera Libellum quemdam del 23 ottobre 1255, prendendo tuttavia posizione a favore degli Ordini mendicanti e senza più porre limiti al numero delle cattedre che essi potevano ricoprire. I Maestri secolari rifiutarono queste decisioni, venendo così scomunicati, anche per il boicottaggio da loro operato ai danni dei corsi tenuti dai frati mendicanti.
Il francescano cardinale
Nel 1257 Fra’ Bonaventura diventa Ministro generale dei Frati Minori e questo nuovo incarico lo costringe a lasciare l’insegnamento e a compiere viaggi in tutta Europa. Il suo obiettivo principale fu quello di conservare l’unità dei Minori, prendendo posizione sia contro la corrente spirituale (influenzata dalle idee di Gioacchino da Fiore e incline ad accentuare la povertà del francescanesimo primitivo), sia contro le tendenze mondane insorte in seno all’Ordine. Favorì l’inserimento dell’Ordine francescano nel ministero pastorale e nella struttura organizzativa della Chiesa; e nel Capitolo generale di Narbona del 1260, contribuì alla stesura delle prime norme applicative della Regola, dette appunto “Costituzioni Narbonensi”, che dovevano guidare la vita dell’Ordine.
Nello stesso Capitolo del 1260, gli venne affidato l’incarico di redigere una nuova biografia di San Francesco d’Assisi che, puntualmente presentò al Capitolo generale di Pisa del 1263, con il nome di Legenda Maior, che diventerà la biografia ufficiale nell’Ordine, che rimpiazza tutte le biografie esistenti e si pone l’obiettivo di rinsaldare l’unità dell’Ordine – che conta ormai 30mila frati – minacciata sia dalla corrente spirituale, sia dalle tendenze mondane. A quest’opera s’ispirerà Giotto per dipingere il ciclo delle Storie di San Francesco. Il Capitolo del 1266, riunito a Parigi, giunse a decretare la distruzione di tutte le biografie precedenti alla Legenda Maior. Negli ultimi anni della sua vita, Bonaventura intervenne nelle lotte contro l’aristotelismo e nella rinata polemica fra maestri secolari e mendicanti.
A Parigi, tra il 1267 e il 1269, tenne una serie di conferenze sulla necessità di subordinare e finalizzare la filosofia alla teologia. Nel 1270 lasciò Parigi per farvi però ritorno nel 1273 quando pronunciò altre conferenze nelle quali attacca coloro che a suo parere erano gli errori dell’aristotelismo.
Nel 1271 torna a Viterbo e offre il suo contributo per la risoluzione del famoso conclave, il più lungo della storia, che alla fine eleggerà un suo amico, Gregorio X. Proprio questo Papa due anni dopo lo elegge Vescovo di Albano e il 13 giugno 1273 lo consacrò vescovo e lo creò Cardinale, con il delicato incarico di preparare un importantissimo evento ecclesiale: il Concilio Ecumenico di Lyon in Francia nel 1274, che aveva come scopo il ristabilimento della comunione tra la Chiesa Latina e la Chiesa Greca. Egli si dedicò a questo compito con molta diligenza, ma non riuscì a vedere la conclusione di quell’assise ecumenica. Dopo aver tenuto due interventi, morì durante il suo svolgimento, nella notte tra il 14 e il 15 luglio 1274, forse a causa di un avvelenamento, stando almeno a quanto affermò in seguito il suo segretario, Pellegrino da Bologna.
Il futuro Papa Innocenzo V celebrò le esequie del Cardinale Bonaventura, che venne inumato nella chiesetta dei Frati Minori di Lyon. Nel 1434 la salma venne traslata in una nuova chiesa, dedicata a San Francesco d’Assisi; la tomba venne aperta e la sua testa venne trovata in perfetto stato di conservazione: questo fatto ne facilitò la canonizzazione, che avvenne ad opera del Papa francescano Sisto IV, il 14 aprile 1482.
Nel 1588 Papa Sisto V lo annovera tra i Dottori della Chiesa – che all’epoca sono sei – accanto a San Tommaso d’Aquino, distinguendo i due come dottore serafico Bonaventura e dottore angelico Tommaso. Il suo contributo alla dottrina teologica è importantissimo: innanzitutto, partendo dal pensiero di Sant’Agostino, esprime la necessità di subordinare la filosofia alla teologia, in quanto l’oggetto di quest’ultima è Dio. La filosofia, allora, può solo aiutare la ricerca umana di Dio riportando l’uomo alla propria dimensione interiore – l’anima – da ricondurre appunto a Dio. San Bonaventura inoltre sostiene che Cristo è la via per tutte le scienze e che solo la Verità rivelata può potenziarle e unirle verso l’obiettivo perfetto, l’unico obiettivo che è sempre la conoscenza di Dio. Perciò il Santo, che difende la tradizione patristica e combatte l’aristotelismo, giunge alla conclusione che l’unica conoscenza possibile sia quella contemplativa.
Sempre di derivazione agostiniana, molto importante è anche l’elaborazione della teologia trinitaria di San Bonaventura. In pratica egli evidenzia come il mondo sia una sorta di libro in cui emerge la Trinità da cui è stato creato. Dio, quindi, uno e trino, è presente come “vestigia”, o impronta, in tutti gli esseri animati e inanimati; come “immagine” nelle creature dotate d’intelletto come l’uomo; come “similitudine” nelle creature giuste e sante, toccate dalla Grazia e animate dalle virtù di fede, speranza e carità che le rendono figlie di Dio.
Le opere
Bonaventura è considerato uno dei pensatori maggiori della tradizione francescana, che grazie a lui si avviò a diventare una vera e propria Scuola di pensiero, sia dal punto di vista teologico che da quello filosofico. La produzione scientifica di Bonaventura è vastissima: occupa dieci grossi volumi (in-folio) nella monumentale edizione critica dei Frati di Ad Aquas Claras (Quaracchi – FI), 1882-1902. Il collegio di Quaracchi negli anni settanta del secolo scorso si è trasferito a Grottaferrata vicino Roma; e dal novembre 2008, nella nuova sede del convento Sant’Isidoro in Roma.
Poiché la produzione scientifica di Bonaventura è molto vasta sia per quantità che per varietà d’argomenti, si offre soltanto qualche titolo in base al carattere del contenuto. Di quelle teologiche: Commento ai quattro libri delle Sentenze di Pietro Lombardo (1250-1252); La conoscenza di Cristo (1254); Il mistero della Trinità (1255); Breviloquio (1257); Itinerario della mente verso Dio (1259). Tra quelle spirituali: La triplice via (1259-1269); Soliloquio (1257). Di quelle a carattere francescano: La leggenda maggiore di san Francesco (1262); La leggenda minore di san Francesco (1262).
Il pensatore
Secondo la ratio studiorum dell’Università di Parigi, la culla della cultura, Bonaventura maturò una propria concezione dottrinale e una sensibilità spirituale di grande spessore, come si può evidenziare dalla ricca e abbondante produzione letteraria e scientifica, che, nella stessa dissertazione dottorale dal titolo Questioni sulla conoscenza di Cristo, trova una perfetta sintesi e sistematica esposizione.
Poiché sarebbe estremamente difficoltoso, per non dire inutile, tentare una sintesi del suo pensiero che possa essere proposta al lettore moderno, causa la diversità culturale dei rispettivi tempi storici, si preferisce proporre soltanto qualche concetto per dare una pallida idea della vitalità della sua dottrina. Tra questi concetti interessanti si possono indicare: l’antropologia, la formazione del termine cristocentrismo e l’itinerario di perfezione. Tre tematiche che hanno ancora oggi tutta la loro vitalità e attualità, purché si sappia tenere ben distinta la diversità culturale e metodologica.
L’antropologia
L’idea fondamentale dell’antropologia di Bonaventura è la concezione dell’uomo come microcosmo: “l’uomo è un piccolo mondo” (Itinerarium, II, 3); posto al centro dell’universo tra Dio e tutte le altre creature a lui inferiori: “l’uomo è medium tra Dio e le altre creature” (Commento alle Sentenze, II, 5). Questa condizione di centralità gli viene riconosciuta in tre modi: è la “coscienza” dell’universo; è il “fine” al quale sono “ordinate” tutte le altre creature; è dotato di poteri e facoltà per dominare la natura.
Tutto il pensiero di Bonaventura intorno alla natura e alla condizione dell’uomo si polarizza intorno alla dottrina del libero arbitrio, per il quale è “immagine” di Dio, che costituisce anche il fondamento alla “dignità” dell’uomo. La libertà, secondo Bonaventura, non significa tanto che la ragione può giudicare liberamente sulla base di alcuni criteri, ma piuttosto che la volontà autonomamente comanda regolando l’atto razionale, in modo da eleggere il bene o il male, cioè sceglie quello che vuole e come lo vuole. La libertà nell’uomo è un continuo divenire verso la perfezione, intesa come uno speciale itinerario o percorso esistenziale.
L’uomo, per Bonaventura, è il punto di incontro tra due mondi, quello dello spirito e quello della materia: è costituito dall’anima razionale (che è la più nobile delle forme) e dal corpo umano (che la realtà più nobile della natura). Per questa sua composizione, l’uomo viene a trovarsi a contatto con le creature inferiori sulle quali esercita un dominium nel suo “piccolo mondo”, come Dio lo esercita nel macrocosmo.
In rapporto al mondo, Bonaventura considera la caratteristica della “bellezza” (pulcrum) come una delle proprietà “trascendentali” dell’ente, ossia come una delle proprietà che tutti gli esseri hanno in comune, quali l’unum, il verum e il bonum. In particolare, il “bello” è un valore oggettivo e intrinseco alle cose, e non solo soggettivo, cioè in relazione a un sentimento o a uno stato d’animo del soggetto. Tale oggettività si manifesta nella “proporzione” e nella “luminosità”: l’una costituisce l’aspetto quantitativo e numerico (simmetria, ordinati rapporti di grandezze); l’altra, l’aspetto qualitativo (splendore della luce, varietà dei colori). “L’universo, scrive Bonaventura, è come una bellissima composizione artistica, che si svolge secondo ottime consonanze, in cui le parti si succedono l’una all’altra, sino a che ogni cosa si ordina perfettamente al fine” (Commento alla Sentenze, I, d. 44, a. 1, q. 3, arg. 2 et ad 2).
A fondamento di questa visione secondo rapporti matematici del cosmo, c’è sempre qualche riferimento biblico. Un versetto della Sapienza recita: “omnia in numero, pondere et mensura disposuisti” (11, 20: tutto hai disposto, o Signore, con misura calcolo e peso). Per quanto riguarda l’altro aspetto del mondo quello della “luminosità”, è da ricordare che la luce viene considerato principio della struttura matematica dell’universo, perché è stata la prima realtà creata da Dio, ed ha la capacità di diffondersi e moltiplicarsi in tutte le altre realtà esistenti nel cosmo. La luce è di per sé principio della bellezza (“lux per se pulcra est”) e rende ragione dell’intrinseca bellezza del creato.
La formazione del termine “cristocentrismo”
Da una attenta analisi di alcuni suoi scritti teologici e spirituali, si evince a tutto tondo, che la formazione del vocabolo “cristocentrismo” deriva dall’elaborazione, quasi sistematica, del termine medium fino alla sua identificazione con quello di centrum. Chiara è l’esposizione nel Commento alle Sentenze: “Cristo è medium tra la natura umana e la natura divina… tra Dio e gli uomini” (III, d. 19, a. 2, q. 2, Respondeo). Nelle “conferenze” sull’Hexaemeron, Bonaventura identifica il termine medium con quello di centrum, onde la formazione del termine cristocentrismo. In questo modo l’attenzione si sposta dalla partecipazione alla natura degli estremi al fatto di stare al centro: ogni posizione centrale, indipendentemente dalla partecipazione alle due nature, costituisce un medium e un centrum.
Con questo nuovo termine medio-centro, si precisa sempre di più la posizione di Bonaventura, che nella Conferenza sull’Hexaemeron, afferma che “Cristo è medio di tutte le scienze” (n. 11); affermazione che ha l’aria di una dichiarazione programmatica abbastanza esplicita. E nella stessa “conferenza”, viene formulato il secondo principio “idem est principium essendi et cognoscendi” (n. 1), “identico è il principio dell’essere e del conoscere”, che determina meglio il suo programma cristocentrico: Cristo non solo è il centro e il principio che dà senso e valore a ogni ordine di essere, ma anche il centro e il principio da cui partire per conoscere ogni ordine di essere.
Da queste esplicite premesse, si spetterebbe che Bonaventura trattasse la teologia in chiave cristocentrica, cosa che invece non avviene, in quanto nelle sue trattazioni teologiche ritorna alla dottrina comune del teocentrismo, senza ricordare esplicitamente i nessi che realmente esistono con Cristo. In questo modo, si può concludere che il “cristocentrismo” di Bonaventura è più di natura “spirituale” che teologico, perché considera Cristo come centro e modello di perfezione e non come anche chiave di lettura dell’intera storia della salvezza. Tuttavia è da riconoscere che le posizioni di Bonaventura hanno influito molto sull’Ordine, perché ha saputo fissare le esigenze di una nuova realtà storica e spirituale nella struttura giuridica della Chiesa.
Itinerarium mentis in Deum
Dopo aver composto, nel 1257, il gioiello filosofico-teologico del Breviloquium, a uso degli studenti di teologia, Bonaventura concepì anche l’idea di comporre un “breviloquium” di dottrina spirituale a chi si sentiva chiamato alla contemplazione, cioè a chi voleva trascendere “ogni umana comprensione” (Itinerarium, prol., n.1). Insieme al Breviloquium, si può considerare il capolavoro di Bonaventura. Lo scrisse nel 1259 sulle vette boscose e verdeggianti del monte della Verna, dove Francesco d’Assisi era stato insignito delle sacre stigmate, o come dice Dante “da Cristo prese l’ultimo sigillo, che le sue membra due anni portarono” (Paradiso, XI, 107-108). È un opuscolo piccolo di mole, ma denso di contenuto. Ha un carattere prevalentemente mistico e profondamente umano insieme. Rivela una suggestiva anima d’artista che anela all’unione con Dio. Anelito che costituisce anche la finalità dell’opuscolo: insegnare come ascendere a Dio, “che trascende ogni nostra comprensione” (Itinerarium, Prol., n. 1), come “contemplare Dio non solo fuori di noi e dentro di noi, ma anche al di sopra di noi” (Itinerarium, V, n. 1).
L’ascesa è scandita in tre tappe o vie: il mondo sensibile, l’anima umana e Cristo; ognuna delle quali abbraccia due momenti o capitoli; il settimo e ultimo capitolo rappresenta il raggiungimento del traguardo o “estasi” che esige l’abbandono di ogni attività intellettiva per sprofondare nel pelago dell’amore di Dio, che è tutta grazia dello Spirito Santo, di cui Cristo è pieno. L’opuscolo, pertanto, si compone di un prologo e di sette capitoli.
La “prima tappa” descrive nelle linee generali l’itinerario che si propone di percorrere, attraverso due immagini quella della scala e quello dello specchio. L’intero creato si configura come una “scala formata di sei gradini”, nei quali sono adombrati i sei giorni biblici della creazione e le sei facoltà conoscitive umane; o come uno “specchio” che fa vedere le meravigliose bellezze operate da Dio attraverso tutte e singole le creature. Queste, considerate in sé stesse o nella loro struttura ontologica, rimandano a Dio come a loro Primo Principio; considerate, invece, nel loro dinamismo operativo, a Dio come loro fine Ultimo. Dall’insieme, si ricava anche la concezione che l’uomo è formato in modo da costituire la “coscienza” dell’universo e il pensiero vivente dell’essere.
La “seconda tappa” conduce a scoprire Dio attraverso la sua immagine presente nell’uomo stesso e nelle sue facoltà spirituali, che permettono di vedere Dio come una “immagine riflessa in uno specchio in cui brilla l’immagine della Trinità” (Itinerarium, III, n. 1). Onde l’invito a rientrare in sé stessi: “Entra in te stesso, o uomo, e vedi con quale ardore la mente tua ama sé stessa. Ora non potrebbe amarsi, se non si conoscesse; e non potrebbe conoscersi se non avesse il ricordo di sé stessa, dal momento che è impossibile per noi apprendere qualcosa con l’intelletto se prima non è presente nella memoria” (Ibidem).
Con l’applicazione dei gradini delle tre facoltà spirituali, “l’anima è vicina a Dio: la memoria ti conduce a Dio come Realtà Eterna; l’intelletto ti conduce a Dio come Verità Suprema; e la volontà ti conduce a Dio come Sommo Bene” (Itinerarium, III, n. 4). Questi attributi di Dio vengono gradualmente scoperti e conquistati con l’esercizio delle rispettive facoltà e costituiscono l’oggetto delle tappe successive.
Così, nella “terza e quarta tappa” l’anima contempla l’immagine di Dio nell’anima rinnovata dai doni della grazia, fino alla soglia dell’estasi. Le facoltà dell’anima, infatti, nella terza tappa, conducono naturalmente quasi per mano alle realtà divine, come loro specifica conclusione scientifica. Nella quarta, invece, le stesse facoltà, riplasmate dai doni della grazia e arricchite dalle virtù teologali, conducono gradualmente l’anima a Dio, attraverso la triplice operazione di “purificazione, illuminazione e perfezionamento dell’anima… che si compie tutto per la sincerissima carità di Cristo” (Itinerarium, IV, nn. 7-8).
Nelle ultime due tappe, “quinta e sesta”, Bonaventura, dopo aver contemplato Dio “fuori di noi e dentro di noi” invita a contemplarlo “al di sopra di noi” (Itinerarium, V, n.1). La quinta tappa lo contempla attraverso il suo nome rivelato a Mosè: “Colui che è” (Es 3, 14), cioè attraverso l’esistenza di Dio e dei suoi attributi; la sesta tappa, invece, attraverso la nozione di “bene”, rivelata direttamente da Cristo: “Nessuno è buono se non Dio solo” (Lc 18,19). Il mistero della Trinità si contempla solo attraverso il suo nome, che è “Bontà”. In breve: “come l’Essere è la sorgente di tutti gli attributi essenziali e il suo nome ci conduce alla loro conoscenza, così il Bene è il fondamento principalissimo sul quale noi dobbiamo appoggiarci per contemplare le emanazioni divine (delle tre Persone)” (Itinerarium, VI, n. 1).
Con il settimo e ultimo capitolo, dedicato all’“estasi”, l’itinerario della mente a Dio si è compiuto, dopo aver percorso le sei tappe graduate di contemplazione: natura, uomo e Cristo. Il termine di questa ascesi è la dolcezza dell’estasi, ossia l’abbandono totale a Dio, nel suo “raggio soprannaturale delle tenebre divine”. Nell’estasi, “è necessario abbandonare tutte le operazioni intellettuali, trasportare e trasformare in Dio tutto l’affetto del cuore. Questo è un dono mistico e segretissimo che nessuno conosce se non chi lo riceve, che nessuno riceve se non chi lo desidera, e nessuno poi lo desidera se non è infiammato profondamente dal fuoco dello Spirito Santo, che Cristo Gesù mandò sulla terra” (Itinerarium, VII, n. 4).
E poiché “ad ottenere questo dono, nulla può la natura e poco la scienza bisogna dare poca importanza all’indagine e molta all’unzione (spirituale); poco alla lingua e molta alla gioia interiore; poco alla parola e ai libri e tutta al dono di Dio, cioè allo Spirito Santo; poco o niente alla creatura e tutto al Creatore: al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo” (Itinerarium, VII, n. 5).
Le parole conclusive dell’Itinerarium andrebbero scolpite nel profondo del cuore: “se brami di sapere come ciò avviene, interroga la grazia e non la scienza, il desiderio e non l’intelletto, il gemito della preghiera e non lo studio, lo sposo e non il maestro, Dio non l’uomo, l’oscurità non la chiarezza; non la luce che brilla, ma il fuoco che tutto infiamma e trasporta in Dio, con una unzione che rapisce e un affetto che divora. Questo fuoco è Dio… e Cristo l’accende col fervore della sua passione. Chi prova questo fuoco… desidera morire insieme a Cristo crocifisso e così passare dal mondo al Padre… e dire con Filippo: ‘Ciò mi basta’ (Gv 14, 8)… ed esultare con Davide: ‘O Dio del mio cuore, la mia carne e il mio cuore vengono meno; tu sei la mia porzione per l’eternità. Benedetto Dio, in eterno!” (Itinerarium, VII, n. 7).
L’inverare il pellegrinaggio mistico nell’amore del Cristo crocifisso pone Bonaventura tra i grandi mistici nella storia dello spirito umano. Il suo misticismo non è un distacco dal mondo, ma un rivelarlo nella sua bellezza e verità. Così scrive: “Colui… che non vede gli splendori innumerevoli delle creature, è cieco; colui che non si sveglia per le tante voci, è sordo; colui che per tutte queste meraviglie non loda Dio, è muto; colui che da tanti segni non si innalza al primo principio, è stolto” (Itinerarium, I, n. 15).