


La chiesa di San Giuseppe con l’annesso monastero dei Padri Carmelitani Scalzi, ex monastero dei Padri Benedettini, che ospita regolarmente il Gruppo di Enna per le Celebrazioni Eucaristiche, dal 1934 è sede della Confraternita di San Giuseppe, nel 1965 fu elevata a santuario dal Vescovo di Piazza Armerina, Mons. Antonino Catarella.
Si ha notizia che nel 1030 i Benedettini per primi festeggiarono il culto di San Giuseppe imitati nel tempo dai Servi di Maria e dai Francescani. Solo nel 1621 Papa Gregorio XV estese la solennità a tutta la Chiesa. Nel 1870, Papa Pio X dichiarò San Giuseppe Patrono della Chiesa Universale, mentre Papa Leone XIII nel 1889 lo dichiarò Patrono dei padri di famiglia e dei lavoratori. Papa Giovanni XXIII ha inserito il suo nome nel Canone romano e gli affidò il Concilio Vaticano II.
Il nome Giuseppe è di origine ebraica e sta a significare “Dio aggiunga”, estensivamente si può dire “aggiunto in famiglia”. Può essere che l’inizio sia avvenuto col nome del figlio di Giacobbe e Rachele, venduto per gelosia come schiavo dai fratelli. Ma è sicuramente dal padre putativo, cioè ritenuto tale, di Gesù e considerato anche come l’ultimo dei patriarchi, che il nome Giuseppe andò diventando nel tempo sempre più popolare. In Oriente dal IV secolo e in Occidente poco prima dell’XI secolo, vale a dire da quando il suo culto cominciava a diffondersi tra i Cristiani.
San Giuseppe fu lo sposo di Maria, il capo della “sacra famiglia” nella quale nacque, misteriosamente per opera dello Spirito Santo, Gesù figlio del Dio Padre. E orientando la propria vita sulla lieve traccia di alcuni sogni, dominati dagli angeli che recavano i messaggi del Signore, diventò una luce dell’esemplare paternità. Certamente non fu un assente. È vero, fu molto silenzioso, ma fino ai trent’anni della vita del Messia, fu sempre accanto al figliolo con fede, obbedienza e disponibilità ad accettare i piani di Dio. Cominciò a scaldarlo nella povera culla della stalla, lo mise in salvo in Egitto quando fu necessario, si preoccupò nel cercarlo allorché dodicenne era “sparito’’ nel tempio, lo ebbe con sé nel lavoro di falegname, lo aiutò con Maria a crescere “in sapienza, età e grazia”. Lasciò probabilmente Gesù poco prima che “il Figlio dell’uomo” iniziasse la vita pubblica, spirando serenamente tra le sue braccia. Non a caso quel padre da secoli viene venerato anche quale patrono della buona morte.
San Giuseppe non è solamente il patrono dei padri di famiglia come “sublime modello di vigilanza e provvidenza” nonché della Chiesa universale, con festa solenne il 19 marzo. Egli è oggi anche molto festeggiato in campo liturgico e sociale il 1° maggio quale patrono degli artigiani e degli operai. Vuole tuttavia la tradizione che egli sia protettore in maniera specifica di falegnami, di ebanisti e di carpentieri, ma anche di pionieri, dei senzatetto, dei Monti di Pietà e relativi prestiti su pegno.
Giuseppe, uomo giusto, umile, silenzioso (i Vangeli non riportano nessuna sua parola), pronto ad agire, ma piuttosto schivo, vive a Nazareth in Galilea ed è il fidanzato di Maria. È un artigiano falegname discendente della stirpe di Davide. È un grande lavoratore ed educa Gesù insegnandogli il mestiere di falegname. La figura di Giuseppe a fianco di Maria è importante per le sue azioni di uomo proteso alla ricerca della legge di Dio, dedito alla custodia della sua famiglia. Un uomo che non vuole essere il detentore del comando, ma l’esempio del padre saggio e amorevole. Non si hanno notizie sulla data della sua morte, ma si presume che si sia spento quando Gesù aveva circa trent’anni. Sulla croce Gesù non avrebbe, infatti, affidato sua madre al suo discepolo Giovanni se Giuseppe fosse stato ancora in vita.

Nella tradizione popolare San Giuseppe è anche il protettore degli indigenti. A tale proposito viene preparato un ricco e abbondante banchetto da offrire a tre bisognosi, scelti tra le famiglie più povere del luogo, che personificano i componenti della Sacra Famiglia. Il banchetto, prendendo il nome di “altare” o “tavolata”, è curato da persone come ringraziamento per una grazia ricevuta, e consiste in una grande tavola imbandita con i più disparati alimenti, con primizie, dolciumi e bevande. Secondo la tradizione è proibito comprare cibi pronti per cui alla preparazione delle innumerevoli pietanze concorrono amici, parenti e vicini di casa.
In Sicilia, la tradizione molto antica delle “tavolate” è fortemente sentita. Secondo i racconti orali tramandati nei secoli, sembrerebbe che per esempio nella città di Leonforte, in provincia di Enna, il rituale delle tavolate sia stato introdotto dalla famiglia del Principe Branciforti intorno al 1630.
Allestite secondo un preciso schema, la grande tavola è ricoperta da tovaglie bianche mentre veli da sposa disposti a baldacchino costituiscono il “cielo”, cioè il tetto dell’altare con il quadro di San Giuseppe abbellito da ciotole contenenti germogli di grano e di lenticchie. Il menù del pranzo prevede pietanze a base di verdure e ortaggi di stagione, quindi svariate frittate di finocchietti selvatici, di asparagi, di carciofi, di erbe spontanee, e poi ancora frittate di cardi fritti in pastella, di patate fritte con uova, di polpettine di finocchietti selvatici, uova bollite. Una ricchissima varietà di dolci, legati naturalmente alla tradizione tramandata da madre in figlia, riguardano la preparazione di svariate tipologie di torte, di salami di cioccolata, di sfingi, di pignoccata, di pasta siringata, di torrone e la rinomata cubaita, fatta con sesamo mandorle e miele, risalente alla venuta di Carlo V in Sicilia.
Ma l’alimento che abbonda più di tutti e che al di là dell’uso alimentare, diventa offerta e dono votivo è l’immancabile e rinomato pane di San Giuseppe. Nelle forme simili a vere e proprie sculture di pane riproducenti santi o fregi istoriati con motivi vegetali, rappresenta l’impronta di riconoscimento dei partecipanti alla realizzazione della tavolata.


Nonostante tale ben di Dio, la regina in assoluto della tavolata rimane sempre lei, “la pasta di San Giuseppe”, che in base al paese propone qualche piccola variante. A Barrafranca per esempio, altro grosso centro dell’ennese, la pasta rigorosamente impastata a mano secondo l’antica tradizione, viene cotta in un capiente calderone con fuoco a legna. Separatamente vengono cotti i ceci, i fagioli e le verdure del periodo. Ultimata la cottura, gli ingredienti con abbondante olio d’oliva vengono amalgamati nel capiente calderone e, dopo la benedizione di rito, serviti ai presenti. Non è possibile che la dieta mediterranea fosse già in uso qualche secolo fa?
La scelta del 19 marzo per istituire la festa del papà è dovuta essenzialmente a motivi religiosi, poiché nel calendario della Chiesa si celebra in questo giorno San Giuseppe, padre putativo di Gesù. Giuseppe rappresenta il padre, non per discendenza biologica, ma nel significato più vero. Il padre è colui che custodisce i figli, li ama, li protegge, se ne prende cura seguendoli nel loro cammino. Le virtù conosciute di San Giuseppe sono la pazienza, l’equilibrio, la dignità, l’ascolto, la bontà, l’ubbidienza. E per ubbidienza accetta la Parola di Dio, assumendo il ruolo di capo famiglia con tutte le responsabilità verso chi gli viene affidato. La festa del Papà, diventata un’occasione per riunirsi in famiglia in compagnia di buon cibo, per i figli rappresenta la circostanza di dimostrare il loro amore con biglietti e frasi augurali ricevendo in cambio regali. Ma ci sono anche alcuni cibi tradizionalmente legati a questa ricorrenza. Tra i dolci della festa del papà, famose sono le zeppole di San Giuseppe, frittelle farcite con crema. Si preparano il 19 marzo perché si dice che dopo la fuga in Egitto, per scampare alle persecuzioni di re Erode, Giuseppe fu costretto a vendere dei dolci per mantenere la sua famiglia in terra straniera.