Domenica 12 maggio 2024, è stato pubblicato il Podcast Eroi o Antieroi? [QUI].
Una riflessione sull’eroismo mi è sembrata attagliata al nostro status di Cavalieri e Dame di un Ordine Sacro e Militare.
Degli eroi antichi molto si è già parlato, ma poco, troppo poco, si parla di quelli di oggi. Chi è l’eroe del nostro tempo? Quale idea d’eroismo corrisponde meglio alle aspettative vere del nostro cuore alle quali, talora, non sappiamo neanche noi dare un nome? Quale è l’eroe di cui noi abbiamo bisogno oggi?
In effetti i modelli, le definizioni, che la cultura sembra offrire non sempre sono adeguati. L’uomo moderno, che pensa di non essere più sotto la tutela di altri, ma padrone di se stesso, non ha necessità di un tutore che si faccia carico di difenderne la dignità. Sul piano ontologico è vero che la dignità è somma pertinenza dell’uomo in quanto tale, ma lo scandalo avviene sul piano storico-esistenziale dove, oggi come e forse più di ieri, questa dignità appare umiliata ed offesa. Colui che offende e colui che è offeso hanno smarrito, ognuno a modo suo, questo attributo sovrano della persona.
L’eroe è un personaggio familiare nella nostra antropologia. In essa e nella sua storia si possono riconoscere due matrici fondamentali: quella greca e quella giudaico-cristiana.
Ebbene, per quanto attiene all’argomento che ci interessa, è stata sostanzialmente solo la prima a fornire e presentare questa figura. Nell’altra, semmai, emergono numerosi antieroi. Ma vediamo di capire il perché.
Pur essendo condottieri, legislatori, uomini ispirati, ecc. i patriarchi, i re, i profeti d’Israele non furono eroi ed il motivo più semplice è che il vero, unico, incontestabile (anche se contestato) eroe biblico è, né più e né meno, Dio. Quello che nella cultura classica è un Fato inconoscibile, in quella ebraica ha un nome proprio e personale, addirittura un volto, anche se nessuno può vederlo e restare in vita, dopo. È un “tu” a cui ci si può affidare, con cui si possono stipulare patti, certi che li rispetterà, almeno Lui.
Proprio questo stile di relazione tra uomo e Dio, responsabilizzante, ma appagante, perché tra “persone” che possono, in un certo senso, rispecchiarsi una nell’altra, e che caratterizza il mondo religioso giudaico, non sussiste in quello greco: l’eroe è quello che, pur sapendo che non è possibile all’uomo variare i decreti immutabili del Fato, pure sottomettendovisi, continua a combattere la sua battaglia quotidiana per la sua esistenza, per i suoi ideali. L’uomo greco non può fidarsi/affidarsi al Fato, non lo conosce: Il Fato non è persona con cui, al limite, confrontarsi. Ma non può nemmeno sfuggirgli. Gli eroi greci sono uomini straordinari: accettano qualcosa che non solo non conoscono, ma di cui non sanno e, conseguentemente, non capiscono le ragioni. Il Fato non dà nulla di più di quanto ha decretato, ma può togliere, a volte. La bilancia del dare e dell’avere non è mai in equilibrio: la vita è tragedia, non commedia.
Certamente gli episodi tragici non sono scarsi anche nelle Scritture. Tuttavia, la vita in sé non lo è: il suo continuum, fatto, sì, di tanti momenti, alcuni anche tragici, si dipana secondo un piano di Dio che non smette mai di investire sull’uomo e sulla sua storia. Basti pensare alla “suprema tragedia” nella quale l’uomo-dio, Gesù Cristo, è il protagonista, la Passione, che si iscrive, tuttavia, nella storia della salvezza (della felicità), come momento obbligato di passaggio alla Resurrezione. Un passaggio dal tempo dell’uomo (la tragedia della Morte) a quello di Dio (la salvezza della Resurrezione), l’A/Ω.
La tragedia greca, invece, non ha né un “prima” né un “dopo” umani: prima è il Fato che conduce gli attori alla e nella scena e sul palcoscenico solo l’intervento di un “deus ex machina” determina la fine, ma… e il fine? La catarsi? Sì, certo, ma del pubblico, non dell’eroe. Egli è un mezzo, non viene proposto come fine, o, al limite, come esempio. E quando la tragedia non è data per la rappresentazione, come nei poemi epici, neppure la catarsi sembra alleviare l’insostenibile peso del dramma.
Non c’è dubbio sul fatto che, se i contenuti tragici possono risultare a noi familiari per consuetudini di studio, la sensibilità moderna sia tuttavia più vicina al modello ebraico-cristiano che a quello greco. Il tempo come continuità – idea che solo il concetto di un dio personale poteva permettere – è alla radice del romanzo moderno. Quella giudaica è una cultura narrativa, quella greca classica no. È comunque dall’unione, dall’integrazione tra i due modelli, che si afferma la mentalità occidentale, dove la narratività, cioè la tendenza al trapassare degli eventi dall’uno all’altro, determina necessariamente una sospensione del giudizio sugli stessi, ma si lega ad un’attitudine assertoria, definitiva, nella quale il giudizio deve essere pronunciato continuamente.
Diversi studiosi hanno più volte osservato che in uno stesso episodio narrativo coesistono almeno due diversi punti di vista possibili ed essenziali: quello in cui l’episodio viene letto nel quadro di un disegno storico più generale e quello in cui l’episodio consiste in sé. L’eroismo s’introduce nel continuum storico senza, con ciò, perdere la sua connotazione, il suo carattere particolare, dove quest’ultimo è qualcosa di più dell’universale: actus essendi come definito da San Tommaso.
Nell’ambito della psicologia del profondo si danno tre interpretazioni della figura dell’eroe.
Per Sigmund Freud “eroe è colui che coraggiosamente si leva contro il padre e alla fine lo supera vittoriosamente”. La sua importanza dipende o dall’efficacia della sua personalità o dall’idea che rappresenta. In ogni caso: “sappiamo che nella massa degli uomini vi è grande bisogno di un’autorità da ammirare, a cui inchinarsi, da cui essere dominati, fors’ anche maltrattati. Dalla psicologia dell’individuo abbiamo appreso donde provenga questo bisogno delle masse. È la nostalgia del padre insita in ognuno fin dall’infanzia, dello stesso padre che l’eroe della leggenda si vanta di avere vinto… La risolutezza dei pensieri, la forza della volontà, l’impeto dell’azione appartengono all’immagine paterna, ma più di tutti vi appartengono l’autonomia e l’indipendenza del grande uomo, la sua divina noncuranza che può crescere fino alla mancanza di qualsiasi riguardo. Lo si deve ammirare, è consentita la fiducia in lui, ma non si può fare a meno anche di temerlo. Avremmo dovuto lasciarci guidare letteralmente dalla parola: chi altri se non il padre può essere stato l’“uomo grande” nell’infanzia?”
Carl Gustav Jung non rifiuta questa interpretazione, ma la amplifica leggendo nella figura dell’eroe l’immagine del Sé, espressione con la quale definisce la totalità psichica di cui l’Io è solo una parte: “L’eroe rappresenta il Sé inconscio dell’uomo, e questo si manifesta empiricamente come la somma e la quintessenza di tutti gli archetipi, incluso perciò anche quello del padre e del vecchio saggio”. E, in un altro passo: “Nella forma umana visibile non è l’uomo che cerchiamo ma il superuomo, l’eroe o il dio, essere somigliante all’uomo, che esprime le idee, le forme e le forze che hanno presa sull’anima e la plasmano”.
Il motivo paterno che si rintraccia nella figura dell’eroe è interpretato dallo psichiatra tedesco Erich Neumann come l’elemento che consente l’opposizione alla Grande Madre e quindi come la separazione dal mondo materno senza la quale non avverrebbe alcun processo d’individuazione: “Per l’eroe, l’identificazione con il maschile, con ciò che abbiamo chiamato “cielo”, è il presupposto che gli consente di accedere al combattimento contro il drago. Il momento culminante dell’identificazione è quando egli sente di essere figlio di dio, d’incarnare in sé tutta la potenza del cielo. Questo sta appunto a significare il fatto che gli eroi sono sempre generati da un dio. Solo il sostegno del cielo, il senso di avere la propria origine in alto, nella divinità paterna, nel dio padre, inteso non tanto come capo della famiglia, quanto come spirito creatore, rende possibile la lotta contro il drago partorito dalla Grande Madre. Ponendosi come rappresentante e difensore di questo mondo spirituale contro il drago, il mondo materiale, l’eroe diventa il liberatore ed il salvatore, l’annunciatore del nuovo, il redentore, il portatore della sapienza e della cultura” (Storia delle origini della coscienza. Astrolabio, Roma, 1978, pag. 140).
L’eroe, figura archetipica e totipotente, risorge, dunque, periodicamente, in tutta la storia dell’Occidente: dagli eroi romani a quelli romantici, a quelli contemporanei, militari e civili. Dal Medio Evo in poi la fisionomia di questo eroe si è quasi sempre modellata su quella del Cristo anche se spesso, soprattutto nei tempi più recenti, si è trattato di imitazioni sature d’ambiguità. L’eroe per antonomasia appare quello proposto dal romanticismo: colui che assume e le fa morire, con sé, in un’unica morte, tutte le contraddizioni dell’uomo e della storia: un precursore dei moderni, ma blasfemi “martiri suicidi della fede”.
Il limite di questa impostazione, come di un po’ tutto l’intellettualismo occidentale, è quello di raffigurare l’eroismo come emblema, sfocandone i contorni storici e morali dell’atto eroico, delle sue origini come dei suoi fini. Sono state contrapposte spesso due immagini dell’eroe: il “self-made man”, che ha la sua origine nell’uomo “divinizzato” umanistico e rinascimentale e l’eroe cristiano, il cui statuto d’eroe non è dato dal fatto d’avere compiuto grandi azioni, ma dall’avere acquisito grandi meriti.
Proprio alla luce della grandezza del merito, più che di quella della sublimità dell’atto, possiamo vedere e percorrere sicuri la via contemporanea dell’hic et nunc che, fondandosi sull’archetipo, lo attualizza per noi. Per uomini ormai stanchi di maestri, ma non mai sazi di testimoni. Tanti esempi commoventi ci illuminano su eroi tali perché hanno saputo fare quello che dovevano fare in quella precisa circostanza. Di eroi per i quali le stesse ragioni che li hanno resi vivi e veri uomini nella vita di tutti i giorni li hanno anche ispirati nel momento della testimonianza suprema. Uomini che hanno continuato ad essere, in quel momento estremo, quello che erano sempre stati. Abbiamo a che fare con la routine del lavoro, della famiglia, con le malattie, il trascorrere dell’età, le tasse, il condominio, il mutuo, il bilancio, insomma, antieroi.
Però l’antieroicità della nostra vita quotidiana è più apparente che reale perché l’accettazione del nostro “destino” ci si presenta come una consuetudine consolidata e scontata. Nessuno di noi si accorge di quanto eroismo ci voglia per continuare ad andare avanti verso un futuro che si è fatto più oscuro per una grave malattia, un tracollo economico, un fallimento affettivo, … È l’eroismo antieroico di Ettore davanti all’amata Andromaca ed all’adorato figlio. L’eroismo c’è: basta saperlo vedere.
C’è per quegli uomini che non vogliono chiudere preventivamente, per un calcolo meschino, le occasioni di sofferenza che la vita dispensa. La tentazione di tenere strettamente per sé la nostra vita, al di fuori della lotta quotidiana, è forte soprattutto quando si è a corto d’ideali.
Ci sentiamo di fare ancora oggi nostre, a distanza di più di un secolo, le parole di Charles Péguy che sosteneva che il vero eroe della nostra società è il buon padre o, per par condicio, una buona madre di famiglia. Un buon padre, una buona madre lottano davvero contro tutto e contro tutti per salvare i loro cari dalla tempesta dei tempi. E talvolta soccombono, ma affrontano la realtà a viso aperto fiducioso e sicuro. Grazie alla loro testimonianza non tutto perisce con loro, ma il loro eroismo è fecondo perché l’eroismo è una connotazione delle virtù dei Santi, virtù eroiche, appunto, ed è epifenomeno di un Amore che genera il bene e “Bonum est diffusivum sui” (S. Tommaso, Summa theologiae, I, q. 5 a. 4, ad 2) come l’eroismo dei Martiri da cui nacque e si sviluppò, fin dalle origini, la Chiesa che è Comunità di Credenti e di Santi.