Podcast XVI – 31 marzo 2024 – Domenica di Pasqua: «Entrò anche l’altro Discepolo e vide e credette» (Gv 20, 8) [QUI]
Non possiamo chiamarci Cristiani se non fondiamo la nostra fede nella Risurrezione di Gesù, Figlio dell’Uomo, Figlio di Dio (Mc 1, 1). Senza Risurrezione di Cristo non c’è Cristianesimo.
L’elemento centrale del bellissimo discorso di Pietro nella casa del cinturone Cornelio a Cesarea e che inizia con: «In verità mi prendo conto che Dio non fa differenza di persone» (At 10, 34) e che, in un primo momento, riassume la vita di Gesù (cf At 10, 37) è l’annuncio degli eventi pasquali: «Essi lo uccisero appendendolo ad una croce, ma Dio lo ha risuscitato il terzo giorno» (At 10, 39-40).
Il Risorto si manifestò a testimoni prescelti ed ordinò loro di predicare al popolo il suo messaggio di salvezza e vita eterna. Infatti la Risurrezione di Cristo è il contenuto centrale della predicazione apostolica e costituisce il nucleo fondante della comunità di fede eretta sull’esperienza e sulla testimonianza di testimoni credibili di quell’evento. In particolare l’esperienza fondante di questi “testimoni prescelti” consiste nel fatto che hanno mangiato e bevuto con il Signore dopo la sua risurrezione dai morti» (At 10, 41).
Il Figlio di Dio, manifestazione della comunione intra-trinitaria, abitava la relazione di intimità che lo legava ai suoi discepoli, espressa dalla condivisione della mensa, non è stata interrotta dalla morte e continua grazie alla sua risurrezione. E poiché quella comunione e quell’intimità è, appunto, manifestazione trinitaria, soprattutto dopo la Pentecoste, non è più costretta dai limiti dello spazio e del tempo e giunge fino a noi oggi e fino alla fine dei tempi.
Certamente Pietro è giunto ad annunciare con forza la sua fede nella casa di Cornelio mediante un cammino di autocoscienza complesso e dibattuto e proprio le difficoltà di Pietro nell’accettare e fare proprio il messaggio di Gesù, con il quale, pure, era vissuto in intimità per tre anni, vengono incontro alle nostre difficoltà nell’accogliere e professare la fede.
E non è solo Pietro a dover fare questo difficile cammino interiore, anche per Maria di Màgdala e per il discepolo, quello amato da Gesù, i Vangeli delineano diverse e complementari tappe del percorso nella fede.
Il primo giorno dopo il sabato, Maria di Màgdala si reca al sepolcro «quando era ancora buio» (Gv 20, 1), come specifica Giovanni, e non è certo solo di un’indicazione cronologica, ma racchiude un senso simbolico. Questa donna, appassionata di Gesù, ha il cuore oppresso dalla paura, dall’angoscia, dal senso di fallimento dopo aver assistito alla morte del Maestro. Comunque, l’amore, la tenera devozione di Maria verso Gesù, la spinge a recarsi al sepolcro per manifestare almeno al suo corpo morto tutta la sua affezione. Non ancora illuminata dal fulgore della resurrezione, il buio in cui ella si muove è quello dei ristretti orizzonti della comprensione umana che si ferma, attonita, davanti alla morte e, al massimo, si strugge nell’elaborazione del lutto. Infatti, quando non trova il cadavere nel sepolcro la sua reazione è quella di escludere spiegazioni che non siano dette da realismo e razionalità empirica escludendo qualunque ipotesi diversa (cf Gv 20, 2): hanno rubato il cadavere.
Pietro, e il discepolo che Gesù amava, entrambi accorsi al sepolcro dopo la notizia della scomparsa del corpo del Signore, riportata da alcune donne, vedono solo segni che lì per lì non provano nulla se non si aprono gli occhi ed il cuore alla luce disvelante della fede. Quelli della resurrezione, infatti, sono segni, prove, deboli: più che la pietra ribaltata, soprattutto, le bende e il sudario «non posato insieme ai teli, ma avvolto in un luogo a parte» (Gv 20, 7), provano solo che il cadavere non è stato trafugato. Ma si tratta di tutte prove in negativo, per viam negationis. È ancora poco per giungere a realizzare l’evento della risurrezione.
È necessario il “salto” della fede per vedere gli stessi segni, ma in positivo. Questo “salto” non lo compie neppure Pietro, che entrò per primo e da solo nella tomba, ma solo il discepolo amato dal Signore che, entrato a sua volta, «vide e credette»! (Gv 20, 8). Questo balzo trasforma l’orizzonte dell’esistenza svela ai discepoli il senso delle Scritture che ancora non avevano capito (At 20, 9).
Paolo afferma con l’autorità conferitagli dal Signore stesso, che la risurrezione di Cristo non è solo un fatto storico da celebrare, ma è il principio fondativo che architettonicamente struttura la storia dell’umanità, e quella di ciascuno di noi (Col 3, 1). La risurrezione è l’affermarsi di una vita nuova.
E noi, tutti noi, nessuno escluso, dal momento che, come abbiamo visto, Dio non fa distinzioni (At 10, 34) possiamo sperimentare salvifiche anticipazioni della rinascita a nuova esistenza in Gesù, Figlio di Dio, ma pure, Figlio dell’Uomo, morto e risorto. Queste gioiose anticipazioni si danno quando, consapevoli del perdono misericordiosamente ricevuto (At 10, 43), siamo in grado di instaurare relazioni riconciliate con Dio e con i fratelli; quando lasciamo che la risurrezione illumini la nostra intelligenza e la nostra affettività; quando la vita si innalza dall’appiattimento nelle piccole cose al gusto di una ricerca alta.
Ancora Paolo, per questo, ci invita a rivolgere «il pensiero alle cose di lassù, non a quelle della terra» (Col 3, 2), cioè non a disprezzare le cose di quaggiù, ma a leggerle e valorizzarle alla luce di un’ottica di risurrezione e non di morte. Se ben compreso è un invito a mettere in atto il maggiore degli azzardi: scommettere, per fede, nella speranza ed operando nell’amore, sulla possibilità di realizzare la nostra umanità nella sua essenza, né più e né meno, di Figli di Dio, e lo siamo realmente! (1Gv 3, 1).
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