Podcast 21 aprile 2024 – IV Domenica di Pasqua: «Io sono il buon Pastore, dice il Signore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me» (Gv 10,14) [QUI]
Nell’Eucaristia continua a costruirsi l’unità della Chiesa sul fondamento della Pasqua di Cristo come ci ricorda la Prima lettura (At 4,8-12): «La pietra scartata dai costruttori è diventata testata d’angolo». Ci troviamo davanti a un succedersi di immagini le quali ci dicono che il Signore e il suo Spirito sono all’opera perché, attraverso l’economia del già e del non ancora, le singole Chiese avanzino progressivamente verso la ricomposizione dell’unità nella Comunità dei Christifideles, Comunione dei Santi.
Per questo nella Preghiera Eucaristica ricordiamo “tutti gli uomini che cercano Dio con cuore sincero” e tutti coloro “dei quali solo Dio ha conosciuto la fede”. Così pure, mentre invochiamo lo Spirito per essere da lui “riuniti in un solo corpo”, pensiamo anche a “tutti gli uomini di buona volontà nel cui cuore opera sempre ed invisibilmente la grazia” e ai quali lo stesso Spirito dà “la possibilità di venire a contatto, nel modo che Dio conosce, col mistero pasquale” (GS 22). Accettare questo mistero significa entrare in relazione con il Signore, conoscerlo, ascoltare la sua voce per giungere con sicurezza ai pascoli eterni del cielo, accanto al Padre, come chiediamo nella Colletta e nell’ Orazione dopo la Comunione.
La IV Domenica di Pasqua è anche detta la “domenica del buon Pastore”, poiché Gesù si presenta a noi, personalmente, proprio come Buon Pastore per i suoi fedeli che egli, continuando l’allegoria, presenta come il suo gregge, le sue pecore. Il brano (Gv 10,11-18) è molto conosciuto, ma, prima di iniziare a meditare insieme su di esso, occorre ricordare che dobbiamo leggerlo alla luce della Pasqua, illuminati dalla resurrezione di Cristo e dal trionfo della vita sulla morte. Infatti il buon Pastore dice “do la mia vita [per le pecore] per poi riprenderla”.
Per noi la figura del pastore risulta piuttosto sbiadita ed appartenente ad un modo arcaico e quasi mitico ed evanescente. I nostri bambini, almeno quelli i cui parenti non negano la gioia di festeggiare cristianamente il Santo Natale, la associano, al massimo, ai personaggi del Presepe. Invece, l’immagine del pastore è ben conosciuta nel mondo biblico, fa parte dell’esperienza quotidiana di Israele, che in larga parte vive di pastorizia, ed è l’esperienza di allevamento di un gregge non di tipo industriale, ma artigianale, familiare. In genere si tratta di un piccolo gregge, di poche pecore. Il pastore è colui che si prende cura di loro, che instaura con esse un rapporto privilegiato, è quello che accudisce le sue pecore, si prende cura della debole, fascia quella ferita, sta attento a che quella più forte non prevarichi quelle più deboli. Insomma quella del pastore con le sue pecore è una relazione che finisce per diventare affettiva, al punto che egli le chiama tutte per nome e le pecore riconoscono la sua voce che le tranquillizza e la sua sola presenza le rassicura.
Non è un semplice rapporto utilitaristico, ma è una convivenza quasi permanente, ventiquattro ore su ventiquattro, che consente una conoscenza profonda anche di semplici differenze di comportamento e di abitudini degli animali dei quali si prende cura. Il pastore non è quello che se ne va per la sua strada, ma colui che costruisce sul proprio cammino su ciò di cui le pecore hanno bisogno.
L’esperienza, nel pascolare le pecore, è che loro sono l’elemento prioritario, e che dunque il pastore è al servizio del gregge e non viceversa. Così è il pastore che sceglie il cammino, non quello più comodo per lui, ma quello che è più giusto, più adatto per le pecore, anche quando come ci dice il Salmo 23: “dovessi camminare per una valle oscura”. E le pecore, come tanti altri animali, temono il buio e le sue incognite. È addirittura il Creatore stesso, in Genesi 1,28, che ordina ad un popolo di pastori, come l’antico Israele, di esplorare e mantenere il meglio che la Terra può dare per il gregge, la dove, con una infelice traduzione dei verbi kabash e radah, resi come soggiogare e dominare, Colui che sarà invocato come il Pastore d’Israele rende noi uomini e donne suoi amministratori del Creato.
Ovviamente quelle pecore siamo noi, e anche a noi il buio e l’ignoto fanno paura, e quando poi addirittura questo buio ha dentro di sé l’idea della morte allora è il terrore. La presenza del Pastore, di Gesù, buon Pastore, diventa una realtà che mette in fuga le tenebre, mette in fuga la morte, e perciò mette in fuga la paura che l’uomo ha delle une come dell’altra. Il buon Pastore conosce le sue pecore ed esse conoscono lui, “come il Padre conosce me e io conosco il Padre”. La conoscenza che il buon Pastore promette alle sue pecore, presentandola – da parte sua – come già un dato di fatto, è mirabile rispecchiamento di quella che sussiste nella vita trinitaria fra le tre Persone del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Il che è sconcertante. Pensare che Dio interagisca con una sua creatura generando un rapporto di intimità assimilabile al suo stesso modo di essere Dio è una verità che lascia senza fiato, che ci trascina estasiati, cioè fuori di noi, nella vertigine indicibile dell’amore.
Questa è la sorgente che attirerà al vero ovile di Cristo le pecore che ancora non vi appartengono e le renderà attente e capaci di riconoscere la sua voce, la voce di colui che dona la propria vita per la salvezza di tutti. Di ciò profeterà Caifa, decidendo la morte di Gesù, quando, secondo Gv 11,49-52, “come sommo sacerdote, fece una profezia e disse che Gesù sarebbe morto per la nazione, e non soltanto per la nazione, ma anche per unire i figli di Dio dispersi”. È dunque Gesù stesso a far conoscere la relazione vitale che intercorre tra il pastore e le pecore e ad indicare alla Chiesa il cammino da percorrere per il conseguimento dell’unità.
L’esperienza della presenza di Dio permette di attraversare la morte senza più temere, perché il Signore ha preso su di sé il peccato e la morte, e nella sua morte e resurrezione li ha distrutti, li ha sconfitti per sempre facendoci scoprire di nuovo la bellezza e la dignità dell’essere figli di Dio, infatti “vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente!”, come ci dice la seconda lettura di oggi (1Gv 3,1-2).
Ma accanto alla luminosa figura del Pastore, buono e bello, Kalòs kai Agathòs, il Vangelo ci presenta anche, in contrapposizione dialettica, figure che ci turbano: quella dei lupi e quella del mercenario.
Il lupo è la rappresentazione simbolica del Maligno che è sempre in agguato, che è alla porta del nostro cuore e vuole entrare per distruggere la nostra vita, per ucciderci non solo fisicamente, ma spiritualmente, togliendo dalla nostra esistenza l’amore e la speranza, facendoci vivere alla giornata senza ideali e senza futuro: “se non agisci bene, il Maligno è accovacciato alla tua porta; si sforza di dominarti” (Gen 4,7), ma siamo noi che possiamo dominarlo, come dice Dio a Caino, vivendo come figli della luce.
La seconda figura negativa e ancor più disturbante perché umana, è quella del mercenario, che non è il vero pastore, così come lo abbiamo individuato sopra, ma utilizza le pecore per un suo tornaconto, per un guadagno personale: le usa, non le ama, non sono la sua vita, e di fronte al pericolo egli fugge, lasciando in balia del male il suo gregge e, certamente, non mette a rischio la sua vita per le pecore che non sono neppure sue.
Molte volte nella nostra vita siamo circondati da tante voci, frastornati, confusi, spaventati e incerti su come agire ed andare avanti. Ci capita di non riuscire ad ascoltare, o peggio di non capire che quello che il Pastore Gesù ci dice, ci chiede, ci consiglia, per guidarci sul cammino verso la Beatitudine e la vita. Talvolta sembra più accattivante e sicura o semplice e deresponsabilizzante la voce del mercenario, e scegliamo di seguire colui che non ci ama, ma ci illude nella menzogna. Quando seguiamo queste voci, finiamo per cadere nel peccato, avendo smarrito la via della salvezza e addirittura, confusi e con la morte nel cuore, cadiamo nella disperazione di credere che per noi non c’è più speranza.
Oggi il Signore, come buon Pastore, viene a guidarci manifestando con tutta la sua forza al nostro cuore il suo amore per noi, il perdono dei peccati e il dono della vita per tutti coloro che ascoltano la sua voce. Sta a noi permettergli di prendersi cura di ognuno, di lasciarci prendere sulle sue spalle quando ci siamo allontanati e perduti, anche se, per fare ciò, lascia nel deserto, con tutti i rischi che ciò comporta, le 99 pecore fedeli e “ritrovata [la pecorella smarrita], se la mette in spalla tutto contento, va a casa, chiama gli amici e i vicini dicendo: Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora che era perduta. Così, vi dico, ci sarà più gioia in cielo per un peccatore convertito, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione” (Lc 15,5-7).
Entrare nella conoscenza intima del Figlio, che mostra la benevolenza del Padre, significa accogliere la prospettiva di un dono che nessuno, da sé, potrebbe immaginare né tantomeno costruire: quella dell’unica grande famiglia dei figli e delle figlie di Dio. “Fratelli tutti”, direbbe il Santo Padre Francesco, perché tutte pecorelle – smarrite, ferite, appassionate… – nell’unico gregge dell’unico Pastore.
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