Riflessioni sulle letture festive della Delegazione Roma e Città del Vaticano – V Domenica di Pasqua: Rimanete in me

La Delegazione di Roma e Città del Vaticano del Sacro Militare Ordine Costantiniano di San Giorgio, nell’obiettivo di fornire una formazione continua ai propri Cavalieri, Dame e Postulanti, con la Domenica delle Palme 2024 ha iniziato la pubblicazione sul proprio canale YouTube dei podcast con delle riflessioni sulle letture festive, a cura dal Referente per la Formazione, Prof. Enzo Cantarano, Cavaliere di Merito con Placca d'Argento. Il 28 aprile 2024 è stata pubblicata la Meditazione sulle letture della IV Domenica di Pasqua, la domenica “del buon Pastore”.
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Meditazione per il 28 aprile 2024 – V Domenica di Pasqua: Rimanete in me [QUI]

Se viviamo uniti a Gesù come i tralci che si dipartono, fecondi e vigorosi, da una vite e siamo anche riconosciuti dai fratelli come tali, non può accaderci quello che successe nelle prime Comunità cristiane dove davanti a un Paolo che muove i suoi primi passi nella fede vi sono uomini che non vedono in Lui un discepolo di Gesù, ma sono legati alla sua vecchia figura di persecutore.

Quello che ci viene chiesto questa domenica, è di vivere una fede che non sia come una semplice etichetta, ma che sia vissuta per portare frutti. Come veri discepoli e, dunque, testimoni fedeli, coloro che sono distanti da noi e dal nostro modo di concepire la realtà possono veramente interrogarsi sul nostro modo di vivere. Più che una risposta siamo chiamati a essere capaci di creare in chi ci vede delle domande di fondo aperte a risposte sul senso del nostro agire da cristiani. E questo è il primo frutto che portiamo come tralci fecondi della unica vera vite che è Gesù. Certo, se noi per primi assumiamo un atteggiamento di chiusura, come vediamo nella prima lettura (At 9,26-31), diventiamo scandalo e invece di attrarre allontaniamo.

Domenica scorsa lo sguardo era rivolto al Buon Pastore. Questa domenica contempliamo l’icona della vigna in cui noi siamo innestati e chiamati a portare frutti, ma lo siamo realmente? E quali sono i nostri frutti? Apertura, accoglienza, perdono, prossimità a chi ci sta vicino, capacità di intercettare i bisogni dell’ambiente circostante? Siamo in grado di uscire da una fede formale e mostrare, con le opere, come dice l’apostolo Giacomo, o con i fatti e la verità, come ci chiede la seconda lettura, una fede viva? Una fede che non si erge a giudice, ma è espressione di braccia aperte nei confronti dei fratelli?

La fede diventa espressione dell’amore di un Dio non lontano ed etereo, ma incarnato, reale come vero cibo e vera bevanda, nutrimento per tutti coloro che sono sul faticoso e spossante cammino alla ricerca di un senso o nella vita dei poveri che, come abbiamo pregato nel salmo responsoriale (Sal 21), “verranno saziati e il vostro cuore vive per sempre” (cfr Sal 21, 27).

L’allegoria della vigna è già utilizzata in tutto l’Antico Testamento da tanti profeti, da Isaia, Geremia, Ezechiele, nei Salmi per identificare il popolo di Israele. Ma qui Gesù ne dà un significato molto originale! Giovanni, infatti, porta una innovazione sostanziale, talmente differente da richiederci una riflessione profonda: non più una vigna dalle molteplici piante, ma una sola vite e quella vite è Gesù stesso. Lui il nuovo Israele, lui il popolo di Dio capace di produrre quei frutti di cui l’Agricoltore andava in cerca. L’immagine parabolica della vite non solo parla del Signore, ma ci costringe a riflettere su noi stessi e sulla relazione con lui.

Non possiamo fare a meno di accostare l’immagine giovannea dell’unica vite al pensiero paolino che nella lettera agli Efesini espone il progetto antico di Dio: il disegno cioè di ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra (Ef 3, 10). A maggior ragione è da rileggere quanto l’Apostolo esprime a più riprese sul senso stesso della Chiesa: così anche noi, pur essendo molti, siamo un solo corpo in Cristo e ciascuno per la sua parte siamo membra gli uni degli altri (Rm 12, 5) o Egli è anche il capo del corpo, cioè della Chiesa; il principio, il primogenito (Col 1, 18) e ancora, Egli è il nuovo Adamo (1 Cor 15, 45) da cui tutta l’umanità ha avuto origine con una vocazione all’unità (Cfr. Gen 2, 24).

Non a caso il principio del male, “satana” (l’avversario), prende il nome di “diavolo” (colui che divide): ogni divisione, ogni separazione è originata dal male e a sua volta origina nuovi mali. La salvezza di ognuno è strettamente legata agli altri perché, volente o nolente, apparteniamo alla stessa unica realtà. Gli egoismi, i tornaconti, le distinzioni, l’incoerenza, la superbia, la menzogna, la nostra condotta verso gli altri, buona o cattiva, si rivolge contro di noi.

La Parola di Dio di questa domenica si presta anche ad una lettura trinitaria profetica che ci riguarda come figli nel Figlio: noi siamo «tralci di una vite» di cui Gesù Cristo, il Figlio unigenito, è «il tronco», mentre «Dio Padre è l’agricoltore» (cfr Gv 15,1); implicitamente, lo Spirito Santo è la linfa vitale che circola nella vite e mediante l’opera di purificazione dell’Agricoltore le fa produrre frutto abbondante. Il Padre, infatti, non taglia, ma purifica, da cui il gioco di parole che Giovanni fa poco dopo tra il verbo “purificare” e l’aggettivo “puri”. C’è differenza tra tagliare e potare a anche se esteriormente sembrano uguali.

Tagliare ha un valore di pulizia, per alleggerire l’albero, per rinvigorirlo eliminando rami infruttuosi. Il Signore ci invita a vivere le potature della vita come possibilità di fecondità. Sottolinea come la Parola di Gesù rende puri i discepoli, rimuove lo scarto, rende possibile un frutto bello, abbondante. Il frutto di un’umanità finalmente libera dagli egoismi, dalla violenza, dalle sopraffazioni.

Un’umanità capace di vivere in comunione, in pace, da fratelli, come figli di un unico Padre! Rimanere, restare uniti: ecco il segreto per portare il frutto bello ed abbondante! Se ci abbandoneremo alla Sua Parola, avremo un’abbondante vendemmia dello Spirito e nessun diavolo potrà dividerci, separarci, isterilirci! Gesù inizia a parlare usando una formula importante, solenne, di auto-presentazione, quella usata da Dio stesso nell’Antico Testamento: “IO SONO la vera vite ed il Padre mio l’agricoltore”.

È uno schema simbolico presente nell’Antico testamento dove Dio è presentato come il padrone della vigna, che rappresenta il popolo. Ma qui c’é una novità molto importante: Gesù si identifica con la vigna è lui l’unica vite di questa sua vigna, che qualifica come VERA, rivelando che non si può essere popolo di Dio prescindendo da lui. Aggiunge l’aggettivo VERA: aiuta a far capire che è la rivelazione definitiva, Dio Padre è l’origine ed il creatore di tutta la vicenda umana, il Figlio è l’autentico Israele, il popolo di Dio, che realizza tutte le promesse dei profeti a favore dell’umanità e fa sì che questa porti molto frutto. Il frutto consiste nel fatto che tutti gli uomini diventino discepoli di Cristo, che tutta l’umanità formi il mondo nuovo, il regno di Dio su questa terra. “Senza di me non potete fare nulla”.

Con queste parole Gesù di Nazareth pone un importante fondamento antropologico sulla sua missione salvifica in relazione a ciascun uomo. Egli, come vero uomo è il modello da seguire e imitare e come vero Dio è Colui senza il quale l’uomo non può fare nulla. A tale proposito la Costituzione Pastorale Gaudium et spes del Concilio Vaticano II afferma che solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo. Proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore Gesù svela anche pienamente l’uomo a sé stesso e gli manifesta la sua altissima vocazione (GS, 22). In questo senso la suggestiva immagine della vite ripresa dal Vangelo di Giovanni (Gv 15,1-8) invita ciascuno di noi ad una serie di considerazioni fondamentali. Prima di tutto il Signore afferma di essere la vite vera e il Padre suo l’agricoltore. Con questa affermazione si vuole mettere in evidenza che il primo ad essere sottoposto al sapiente lavoro dell’agricoltore è proprio lui. Come per ogni agricoltore, la vite e i tralci costituiscono un’unica realtà da lavorare, i tralci senza la vite non possono esistere.

Per ben sette volte è utilizzato il verbo “rimanere” in modo paradossale data l’azione di taglio del Padre, ma è richiamo forte alla nostra libertà di portare frutto che è la discriminante nella potatura. Ciò che permette di portare frutto è il rimanere nella sua Parola. Non si tratta di mantenere una buona relazione con Gesù quanto entrare in lui e permettere che lui entri nella nostra vita per realizzare una vera e propria comunione. È proprio la comunione di prospettive, di intenti, di amore che permette di chiedere quello che volete e vi sarà fatto proprio perché nei tralci uniti alla vera vite circola la presenza divina che tutto può volere e tutto può fare. Nel mondo moderno potremmo essere confusi dall’idea di “produttività” con cui siamo soliti misurare l’attività umana, e non ci inganni l’aggettivo molto o più che sembrano puntare sulla quantità.

Il vangelo di Giovanni non usa un termine al plurale, il Frutto è indicato sempre al singolare perché è prodotto sinergico dell’opera di Dio che purifica e la permanenza dell’uomo nella Parola che gli è stata annunziata. L’unico Frutto possibile è lo stesso Signore Gesù portato nel cuore della storia degli uomini. Gesù con le parole “io sono la vite vera” rivela anche l’intrinseca bontà dei tralci. Egli è la vite perfetta e perfetto è il suo tralcio a patto che questi rimanga ben attaccato alla vera vite.

Due allora le considerazioni conclusive sul Vangelo di oggi. La prima è circa la bontà di ogni uomo.  Gli uomini, amandosi gli uni gli altri, diventano primizie di un’umanità nuova ed essendo immagine del Creatore di per se stessi sono sempre buoni a patto che non rompano la loro comunione con Dio. La seconda riguarda il continuo bisogno di conversione esplicitato nel Vangelo dalla necessaria potatura a cui deve essere sottoposto l’uomo. Egli per produrre i buoni frutti del Vangelo va potato, non una volta sola, ma continuamente, durante tutto il percorso della sua esistenza.  Infatti, ci rassicura il Figlio in Gv 5,17, “il Padre mio opera sempre ed anche io opero” Rimanendo attaccati a Gesù e lasciandosi potare dall’agricoltore, per poter essere sempre più simili a Lui, i cristiani diventano veri discepoli e producono i buoni frutti del Vangelo per la vita eterna. Ma sul frutto dell’amore con cui il Padre cura la sua vigna e di quello con cui essa gli risponde, ricordando il Cantico dei Cantici, ma in spirito e verità (Cfr, Gv 4, 23-24), ne sapremo di più la prossima settimana, nella seconda parte di questo Vangelo.

Indice dei podcast trasmessi [QUI]

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