La Carità Cristiana, pilastro della Missione Costantiniana

Il Sacro Militare Ordine Costantiniano di San Giorgio, a rinsaldare maggiormente le sue secolari istituzioni equestre-religiose, conciliandole con le esigenze dei tempi, che per la loro evoluzione hanno trasformato tutto il regime della odierna società, è dedito a promuovere azioni spirituali, culturali, umanitarie e socio-caritative in conformità con i principi Cristiani. Cos’è la Carità Cristiana? Il termine Carità indica un grande amore incondizionato, disinteressato e fraterno. Lo stesso termine si utilizza anche in riferimento al dare l'elemosina (nell'espressione "fare la carità") e ad ogni forma Cristiana di beneficenza o di volontariato. Si può attuare la Carità mediante le opere di misericordia: le sette opere di misericordia corporale e le sette opere di misericordia spirituale.
Le virtù teologali

Le opere di misericordia

Le sette opere di misericordia corporale

  • Dar da mangiare agli affamati
  • Dar da bere agli assetati
  • Vestire gli ignudi
  • Alloggiare i pellegrini
  • Visitare gli infermi
  • Visitare i carcerati
  • Seppellire i morti

Le sette opere di misericordia spirituale

  • Consigliare i dubbiosi.
  • Insegnare agli ignoranti.
  • Ammonire i peccatori.
  • Consolare gli afflitti.
  • Perdonare le offese.
  • Sopportare pazientemente le persone moleste.
  • Pregare Dio per i vivi e per i morti.

La Carità

La Carità è una delle tre virtù teologali, insieme a Fede e Speranza, che rendono l’uomo in armonia con Dio, mentre le quattro virtù cardinali, Prudenza, Giustizia, Fortezza e Temperanza, come ha indicato Papa Francesco (nella catechesi I vizi e le virtù durante l’Udienza Generale del 20 marzo 2024), «non sono prerogative dei Cristiani ma appartengono al patrimonio della sapienza antica, in particolare dei filosofi greci». Alle sette virtù si oppongono i sette vizi capitali: Superbia, Avarizia, Ira, Invidia, Lussuria, Gola e Accidia.

Il termine Carità deriva dal latino caritas (benevolenza, affetto, sostantivo di carus, cioè caro, amato, con cui San Girolamo, nella Vulgata latina, traduce il greco ἀγάπη, agápē (come appare nel Nuovo Testamento greco), cioè grazia oppure cura. La traduzione è operata ad imitazione del greco χάρις, chàris. Invece, Don Carlo Strazza nell’Ottocento contrapponeva la derivazione di caritas dal latino e non dal greco.

Il termine Carità rappresenta l’amore nei confronti di Dio e degli altri; realizza la più alta perfezione dello spirito umano, in quanto al contempo rispecchia e glorifica la natura di Dio. Nelle sue forme più estreme, la Carità può raggiungere il sacrificio di sé. Attraverso la Carità si realizza il comandamento dell’amore lasciato da Gesù Cristo ai suoi discepoli e quindi ottiene la pazienza di sopportare i mali terreni e raggiungere la felicità eterna: «Allora si accostò uno degli scribi che li aveva uditi discutere, e, visto come aveva loro ben risposto, gli domandò: “Qual è il primo di tutti i comandamenti?”. Gesù rispose: “Il primo è: Ascolta, Israele. Il Signore Dio nostro è l’unico Signore; amerai dunque il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza. E il secondo è questo: Amerai il prossimo tuo come te stesso. Non c’è altro comandamento più importante di questi”» (Marco 12,28-31).

Papa Benedetto XVI scrive nella sua prima Lettera Enciclica del 25 dicembre 2005, dedicata alla Carità, dal titolo Deus caritas est (Dio è amore): «In realtà eros e agape — amore ascendente e amore discendente — non si lasciano mai separare completamente l’uno dall’altro. Quanto più ambedue, pur in dimensioni diverse, trovano la giusta unità nell’unica realtà dell’amore, tanto più si realizza la vera natura dell’amore in genere. Anche se l’eros inizialmente è soprattutto bramoso, ascendente — fascinazione per la grande promessa di felicità — nell’avvicinarsi poi all’altro si porrà sempre meno domande su di sé, cercherà sempre di più la felicità dell’altro, si preoccuperà sempre di più di lui, si donerà e desidererà “esserci per” l’altro. Così il momento dell’agape si inserisce in esso; altrimenti l’eros decade e perde anche la sua stessa natura. D’altra parte, l’uomo non può neanche vivere esclusivamente nell’amore oblativo, discendente. Non può sempre soltanto donare, deve anche ricevere. Chi vuol donare amore, deve egli stesso riceverlo in dono. Certo, l’uomo può — come ci dice il Signore — diventare sorgente dalla quale sgorgano fiumi di acqua viva (cfr Gv 7,37-38). Ma per divenire una tale sorgente, egli stesso deve bere, sempre di nuovo, a quella prima, originaria sorgente che è Gesù Cristo, dal cui cuore trafitto scaturisce l’amore di Dio (cfr Gv 19,34)». Quindi, è da Gesù Cristo che il Cristiano trova la sua fonte di amore per poter amare in modo agapico.

Di seguito riportiamo il saggio La Carità Cristiano di Don Ernesto della Corte. Da giovane è stato ateo per scelta e attivista politico. Durante una grave malattia (un tumore maligno) il Risorto lo incontra, gli dona la Fede e lo chiama al Sacerdozio. Studia Teologia, poi Sacra Scrittura al Pontificio Istituto Biblico e consegue il dottorato in Teologia Biblica. Ha ricevuto la consacrazione sacerdotale nel 1986 per la Arcidiocesi di Salerno-Campagna-Acerno. È professore di Sacra Scrittura ed è stato più volte parroco. È biblista, formatore e predicatore. Si occupa di formazione permanente al clero, a religiosi/e ed ai laici. Insegna alla Pontificia Facoltà dell’Italia Meridionale, in alcuni Istituti di Teologia. È assistente unitario di ACI della propria diocesi e cura la formazione unitaria dell’ACI dell’Arcidiocesi di Capua. Tiene corsi di esercizi spirituali e aggiornamenti biblici da oltre 30 anni, in Italia e all’estero. I suoi scritti scientifici e di alta divulgazione sono numerosi. Commenta i Vangeli della domenica sulla Voce di Padre Pio e cura la rubrica settimanale Conversazioni bibliche su TelePadrePio, per la lectio sul Vangelo domenicale.

La Carità Cristiana
di Padre Ernesto della Corte

La Carità Cristiana non è la Carità in genere, né deve essere identificata con l’elemosina. Dal punto di vista della Rivelazione è la più alta e la più ambita virtù a cui l’uomo possa aspirare.

La Carità in San Paolo

Paolo, nella I Lettera alle comunità di Corinto (13,1-13) la definisce come il più grande carisma [1] a cui un Cristiano possa tendere: la pone al di sopra del dono della povertà, dello spogliarsi di tutti i beni, al di sopra della scienza e della conoscenza della verità e, perfino, al di sopra del martirio che, a quei tempi, era probabilmente la testimonianza più alta alla quale erano chiamate le prime comunità.

Si accomuna la Carità al volersi bene, a compiere qualche opera di misericordia corporale, a essere tollerante, a non adirarsi con nessuno, a non bestemmiare mai. Spesso ci si sente giustificati dalle buone opere che compiamo (o pensiamo di compiere); crediamo che dare qualcosa al povero o versare una cospicua somma sul conto corrente di una qualche organizzazione umanitaria possa essere sufficiente per entrare nelle grazie di Dio. Se pensassimo così, allora saremmo solo degli ipocriti.

L’apostolo Paolo nella 1Cor prende posizione su questioni molto delicate:

  • le divisioni nella Chiesa tra chi parteggiava per i vari partiti, rappresentati dagli apostoli;
  • problemi morali riguardanti i casi d’incesto, di fornicazione e di appello ai tribunali civili;
  • matrimonio e verginità;
  • l’idolatria;
  • l’abbigliamento delle donne nell’assemblea.

In 1Cor 12 inserisce la sua dottrina sui carismi, con al centro il famoso paragone della Chiesa con il corpo umano, e conclude la sua lettera con l’inno alla Carità (rimane solo il discorso sulla resurrezione dei morti che conclude in modo brillante l’epistola).

Cosa spinge Paolo a porre tanto l’accento su questa virtù? A metterla, addirittura, su un piano più elevato del martirio? A nominarla, esplicitamente, oltre tredici volte nelle sue lettere? Che cos’è, insomma la Carità?

«La Carità è paziente, è benigna la Carità; non è invidiosa la Carità; non si vanta, non si gonfia; non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia ma si compiace della verità.
Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. La Carità non avrà mai fine. Le profezie scompariranno; il dono delle lingue cesserà e la scienza svanirà. Ma quando verrà ciò che è perfetto, quello che è imperfetto scomparirà.
Queste dunque le tre cose che rimangono: la fede, la speranza e la Carità; ma di tutte più grande è la Carità!» (1Cor 13,4-8.10.13).

Questo inno stupendo descrive, in modo chiaro e inequivocabile, la manifestazione della Carità, dicendo alla fine, senza possibilità di dubbio, che essa è la più grande delle tre virtù teologali. Ma qual è la sua essenza? È un’idea? È un sentimento? È un atteggiamento interiore di tipo metafisico, trascendente? È un moto dell’animo umano?

Questa parola, impiegata esplicitamente circa 25 volte nel Nuovo Testamento (NT) e, in modo implicito, in molte altre occasioni (basti pensare al discorso sulle beatitudini di Matteo e Luca o a quello sull’amore ai nemici di Lc 6) è una dottrina filosofica (basti pensare al contemporaneo stoicismo e a tutte le sue derivazioni e ramificazioni) o è qualcosa di più?

Cosa ha spinto un uomo come Paolo, fariseo figlio di farisei, allevato nella rigida scuola di Gamaliele, uno dei maggiori rabbini del suo tempo, strenuo difensore della tradizione ebraica, convinto persecutore dei Cristiani, a cambiare così radicalmente la sua vita, anche a costo di sopportare percosse, persecuzioni, incomprensioni e, come ben sappiamo, la morte stessa?

L’incontro con Gesù di Nazareth, il Risorto

È un incontro che lo renderà dapprima cieco (cfr. At 9,3-9) per acquistare, poi, la luce vera, quella che gli farà vedere le cose in un modo nuovo, svincolato dai bavagli della Legge, in una visione universalistica della Salvezza, rendendolo l’apostolo delle genti, senza il quale, probabilmente, il cristianesimo sarebbe rimasto una delle tante correnti ebraiche del tempo.

Un incontro decisivo, quindi, quello di Damasco l’incontro con una persona: Gesù Cristo, che a noi, stasera, dice due cose molto importanti:

  • la Carità non è un’idea, una filosofia o un pio sentimento, ma è l’incontro esperienziale, esistenziale con Dio;
  • la Carità non può essere imbrigliata nei nostri canoni mentali (come amore generico, affetto, solidarietà, ecc.), ma va vissuta e compresa ogni giorno, così come l’incontro con una persona cara dà sempre nuove emozioni e nuove conoscenze reciproche.

Teniamo ben presente, infine, che non siamo noi che andiamo incontro a Dio, ma è Lui che viene verso di noi, non siamo noi che abbiamo scelto Lui, ma è Cristo che ha scelto noi e ci ha costituito come Chiesa perché portiamo frutto abbondante e duraturo (cfr. Gv 15,16).

Eros, philia e agape

Il NT distingue la Carità dalle altre forme umane di amore, utilizzando, per la prima, il termine agape, e per le seconde, i termini eros e philia.

L’eros è l’amore sensibile passionale, che vorrebbe godere e avere per sé la creatura umana verso cui è portato. Esso raggiunge il suo vertice nell’ebbrezza sensibile. Nel mondo greco era personificato nel dio Eros e veniva desiderato e onorato con entusiasmo religioso. A sua volta la religione include l’eros come sua parte costitutiva, poiché attraverso di esso l’uomo entra in comunione con gli dei (per es., attraverso la prostituzione sacra).

La philia presenta un carattere altruista, mentre l’eros cerca la pienezza e la sublimazione della propria vita, sia in forma sensibile sia in forma sublimata. Colui che è mosso dalla philia si preoccupa della persona amata. È così che gli dei si prendono cura degli uomini e l’amico dell’amico; è così che tutti gli uomini dovrebbero comportarsi gli uni verso gli altri. L’eros si rivolge al bello, la philia al bene, soprattutto al bene morale della persona amata [2]. A differenza dell’eros, che è in ampia misura sensibile, la philia è amore personale spirituale.

L’agape (caritas in latino) rappresenta qualcosa di nuovo di fronte all’eros e alla philia e precisamente a motivo della sua origine e della sua essenza soprannaturale, divina. La sua patria va ricercata nel Dio trino, ove essa unisce il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo come una corrente, per poi comprendere e redimere in Cristo e nello Spirito Santo anche gli uomini. In coloro che si lasciano conquistare da tale corrente d’amore essa fa ritorno alla propria origine nel Dio trino in una dedizione piena di gratitudine e si dirige verso il prossimo con benevolenza effettiva. Chi ama così, ama in una maniera molto diversa da colui che è soltanto ripieno di eros, fosse anche nella sua forma più alta, poiché non aspira più in prima linea al suo proprio perfezionamento, ma si rivolge e rimane rivolto in primo luogo al Dio che in Cristo si è rivelato e donato come amore. L’origine da Dio e la permanente dedizione a Dio, anche nel rivolgersi al prossimo, distinguono nettamente l’agape anche da ogni genere di philia orientata in senso puramente intramondano e umanistico.

I tre aspetti però non sono incompatibili tra loro, anzi, sono ordinati l’uno all’altro in molteplici modi, nonostante la loro diversità. Come la grazia divina non distrugge e non elimina la natura, ma la sana e la perfeziona, così l’agape purifica, ordina ed eleva l’eros e la philia. Allo stesso tempo, chi esclude in maniera assoluta e in ogni caso l’eros, anche nelle sue forme ordinate, dall’agape, finisce per fare di quest’ultima un amore inumano, freddo e privo di sentimenti. Così come chi non è capace di incontrare personalmente il prossimo sul piano umano nelle forme di una philia ordinata, difficilmente sarà capace di uscire da sé e di elevarsi a Dio e al prossimo nell’agape in vera apertura e dedizione.

Lungi, quindi, da qualsiasi strumentalizzazione della Parola di Dio, il rapporto tra uomo e uomo e uomo e Dio va rivisto e rivissuto alla luce di questi tre aspetti di quella parola che noi chiamiamo amore, ma che non sappiamo bene cosa significhi. Non esiste un amore solo spirituale, così come non esiste un amore solo passionale; entrambi si completano a vicenda ed entrambi hanno bisogno dell’amore divino come il viaggiatore ha bisogno della bussola, il bambino della mamma e la terra dell’acqua.

Per troppi anni abbiamo idealizzato l’amore vero nell’amore spirituale, angelico, asessuato di Dante e Beatrice e abbiano considerato quello di Romeo e Giulietta troppo volgare e profano; abbiamo condotto ai margini della Cristianità l’amore sponsale, ritenendolo un atto dovuto per la procreazione e per evitare le tentazioni della carne, mentre abbiamo dato il primo posto alle scelte verginali di monaci e suore i quali, staccati dal mondo, cercavano con tutti i modi di evitare tutto ciò che sapeva di carnalità e mondanità, dimenticando la stupenda passione che si legge nel libro del Cantico dei Cantici, testo che l’Ebraismo prima e la Chiesa poi hanno inserito nel canone dei testi sacri, ispirati da Dio.

L’amore carnale, passionale e di amicizia non è peccaminoso, se vissuto nella pienezza di un amore vero, spontaneo, genuino, figlio di un reciproco scambio di sguardi, di relazioni, di ricerca l’uno dell’altra, di mutuo soccorso e comprensione, di scambievole aiuto nei momenti difficili e di bilaterale esaltazione nei momenti di gioia. L’amore carnale, passionale e di amicizia riceve la sua piena legittimazione nel tacito scambio dell’amore divino, laddove nessuna etica umana può arrogarsi il diritto di dichiarare cosa è sporco e cosa è pulito. “Io in te e tu in me” dice Gesù nell’ultimo discorso ai discepoli riferendosi al Padre; “Io in te e tu in me” dice l’amato all’amata.

Qual è la differenza morale tra l’uno e l’altro tipo d’amore? In base a quale principio possiamo definire l’uno puro e l’altro peccaminoso? Perché non posso amare la mia sposa con la stessa intensità e lo stesso amore con il quale il Figlio ama il Padre? La Carità è corrente d’amore nella terra come lo è in cielo, o no? Esiste una simbiosi profonda tra l’eternità e il finito o per quest’ultimo non c’è scampo? E se è vero che posso amare come ama Dio, se è vero che il mio amore è eterno, se è vero che la Carità non avrà mai fine (1Cor 13,8) dove posso vederlo realizzato?

La Santa famiglia di Nazareth

A Nazareth [3], un paesino sperduto della Galilea, a circa 200 km a nord di Gerusalemme. Nazareth è il luogo fisico e storico dove la Carità divina si è realizzata, è la dimora di Dio con gli uomini (Ap 21,3) dove l’onnipotenza dell’Altissimo si rende compagna di lavoro, lotta, sudore, ansie, speranze e gioie di ogni uomo sotto le spoglie di un bambino prima, e di un falegname poi.

Nazareth è il luogo dove Gesù vivrà circa trent’anni senza compiere miracoli, senza sbalordire i suoi compaesani, senza dare nessun segno che possa far trapelare la sua divinità (cfr. Lc 4,16-30).

Fabbricando sedie, realizzando porte, aggiustando gli aratri di legno, sistemando le coperture delle case, il figlio di Dio si guadagnerà il pane con il sudore della propria fronte (cfr. Gen 3,17-19) dall’alba al mattino, non da povero né da ricco, non elemosinando né vivendo agiatamente, ma con uno stile di vita comune a buona parte dell’umanità, sottomesso ai suoi genitori (cfr. Lc 3,51-52).

«Santa e dolce dimora dove Gesù fanciullo nasconde la sua gloria! Giuseppe addestra all’umile arte del falegname il figlio dell’Altissimo. Accanto a lui Maria fa lieta la sua casa di una limpida gioia.
La mano del Signore li guida e li protegge nei giorni della prova.
O famiglia di Nazareth, esperta del soffrire, dona al mondo la pace» [4].

Questo meraviglioso inno dipinge una scena forse troppo idealista, ma che non è molto lontana dalla verità. Sicuramente Giuseppe, Maria e Gesù vivevano un buon rapporto tra loro, sia nel ruolo di genitore e figlio, sia in quello di marito e moglie; ma erano anche persone incarnate nella storia, dove i problemi di lavoro e di salute erano frequenti come in qualunque altra famiglia umana.

Eppure, dietro le quinte, nascondevano una realtà di santità, volutamente non manifestata, tenuta nascosta per motivi che a noi risultano sconosciuti, ma che non possono lasciarci indifferenti; d’altronde, cosa ha spinto i vari Basilio, Benedetto, Macario e tanti altri a scegliere una vita umile, semplice, scandita dal ritmo del lavoro manuale e della preghiera se non lo spirito della Santa famiglia di Nazareth? Lo stesso spirito che ha fatto nascere tanti ordini religiosi di clausura, maschili e femminili, anche in epoche recenti.

Vivere la propria Nazareth

L’imperativo di oggi è godi tutto e subito perché non si vive in eterno e “tutto quello che si lascia è perduto”. È la banalizzazione dell’attimo fuggente, di cogliere tutto quello che capita, di godere dei piccoli e grandi momenti della vita come attori di un film: quando è finito, si spegne la televisione e si va a dormire!

Il senso della vita odierna è sempre più immanente, sempre più materialista, sempre più pragmatico: tutto è valido se serve a qualcosa oggi, tutto è buono se può essere dimostrato, tutto mi può essere utile se mi elimina quest’angoscia che mi porto dentro.

Anche se ci definiamo Cristiani, spesso viviamo come se Dio non esistesse e, quindi, ci affanniamo per conquistare una condizione economica sempre migliore (cfr. Lc 12,22-32) che ci possa garantire, in caso di malattia grave, le cure migliori e più costose. Abbiamo perso il senso di parole come provvidenza, pazienza, attesa, speranza. Niente più ci soddisfa, perché i rapporti interpersonali, i sentimenti, le varie esperienze vengono consumate, non vissute.

La venuta del Figlio di Dio ci spinge a guardare oltre il finito, ad alzare gli occhi verso il cielo (cfr. Sal 120), a porre il senso della nostra esistenza nel mistero di un amore gratuito e immenso come mai l’uomo ne abbia fatto esperienza; un amore che ci viene incontro nella semplicità di un bambino e di una comune famiglia; un amore che si dona sotto le spoglie di un pezzo di pane; un amore che non s’impone, ma che si offre; un amore che non distoglie il suo sguardo al primo rifiuto, ma che è fedele alla sua essenza fino alla morte; un amore unico, mai conosciuto da occhi umani, ma che si è svelato negli ultimi tempi per farsi conoscere e che noi siamo chiamati ad annunziare:

«Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita (poiché la vita si è fatta visibile, noi l’abbiamo veduta e di ciò rendiamo testimonianza e vi annunziamo la vita eterna, che era presso il Padre e si è resa visibile a noi), quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi» (1Gv 1,1-3a).

In questa stupenda introduzione alla sua prima lettera, Giovanni racchiude tutta l’esperienza della Chiesa come un’esperienza concreta, verificabile, basata su un incontro che ha cambiato la vita a lui e i suoi fratelli.

Anche qui c’è un incontro come per Paolo, dal quale nasce una comunione, un’agape, che spinge l’apostolo ad annunciarlo agli altri perché anch’essi siano in comunione con lui e con tutta la Chiesa. In poche righe sono sintetizzati i tre momenti della rivelazione:

  • Dio si china sulle miserie umane e va incontro all’uomo per liberarlo (cfr. Es 3,7 e ss.);
  • l’uomo accoglie quest’amore e ne gioisce (cfr. Lc 1,67-79);
  • spinto da esso non può fare a meno di testimoniarlo ai quattro angoli della terra (cfr. Mt 28,18-20).

Dirà Paolo, scrivendo una seconda volta alle comunità di Corinto: Poiché l’amore di Cristo ci spinge… vi supplichiamo: lasciatevi riconciliare con Dio! (cfr. 2Cor 5,14-21). Quando si vive nell’agape non si può fare a meno di comunicarlo agli altri; l’agape è contagioso, è un fuoco che brucia chiunque gli è affianco, è il tesoro nascosto che chiede di essere condiviso con tutti i poveri della terra. Solo chi lo conosce sa cosa significa.

Francesco d’Assisi lo sapeva bene, per questo ha abbandonato tutto e tutti per seguire l’amato sugli alti monti della conoscenza della verità e nelle valli profonde dell’abbandono supremo alla vertiginosa volontà divina.

Tutto questo è meravigliosamente sintetizzato nella Santa Famiglia di Nazareth. Non è solo un angolo di Paradiso per l’armonia che in essa regna ma è qualcosa di più: è la Trinità in missione fra gli uomini! È sul suo esempio, con il suo aiuto, anche le nostre famiglie (e ognuno di noi) sono chiamate a essere testimoni ed evangelizzatori.

L’opera di Carità più grande che possiamo fare è dire al nostro prossimo che la sua carne non è destinata alla corruzione (cfr. Sal 16), ma che lui è eterno e che tutti i suoi sensi di colpa e le sue angosce, anche se fanno ancora sentire il loro morso, non sono più assoluti, perché lui è amato da un Dio che non ha avuto schifo dei suoi peccati.

Ma questo va detto anzitutto con la vita, vivendo quello che si dice, altrimenti le nostre parole cadono in contraddizione con le nostre opere (cfr. Gc 2,14-26), rendendoci colpevoli di un peccato terribile: ridurre l’amore di Dio a una dottrina o una filosofia che non è possibile vivere! È l’opposto dell’evangelizzazione, è come dire a un uomo: “Vedi questo tesoro? Io ti dico che esiste, ma contemporaneamente ti testimonio che è una falsità, perché anch’io, che tanto te ne parlo, non so dov’è né se vale la pena cercarlo”. È come mostrare a un malato una medicina che può guarirlo e poi gettarla per terra davanti ai suoi occhi.

Quante persone sono state scandalizzate dalle nostre opere! Al riguardo Gesù è molto duro, tanto da dire, per chi crea lo scandalo: Sarebbe meglio per lui che gli fosse messa una macina da mulino al collo e fosse gettato in mare, piuttosto che scandalizzare uno di questi piccoli (Lc 17,2).

La Carità ci spinge, quindi, ad andare agli estremi confini del mondo per gridarla a tutti, ma c’invita, nello stesso tempo, a guardarci dentro ogni giorno, a porci alla presenza dell’Altissimo così come siamo, perché non sprechiamo la perla preziosa che ci ha donato, perché non rendiamo vana la croce di Cristo, perché non poniamo ostacoli all’azione dello Spirito Santo.

Metterci ogni giorno alla sua presenza è per ogni cristiano una necessità più del mangiare e del bere.

Anche Maria, Giuseppe e Gesù, come noi, si alzavano ogni giorno, lavoravano per guadagnarsi il pane, si ammalavano, soffrivano e gioivano; ma avevano imparato, alla scuola della Parola di Dio, a non ribellarsi alla volontà del Padre!

L’agape è vivere ogni giorno come se fosse il primo e l’ultimo della nostra vita; l’agape è porre attenzione a ogni piccolo avvenimento; l’agape è guardare il nostro prossimo negli occhi e scoprirne il volto di Cristo; l’agape è sapere che non si è migliori di nessun altro ma che anzi, come dicevano tanti santi, si è l’ultimo degli uomini ed è solo per grazia divina che possiamo vivere e parlare di Lui ai nostri fratelli.

Ecco: questa è la Carità, l’Amore, l’Agape! Questa è la Santa Famiglia di Nazareth! Questa è la vita nascosta! Questo è il senso della nostra esistenza! Questo è il motivo per cui viviamo!

Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri (Gv 13,34-35), dice Gesù ai suoi discepoli la sera prima di morire. Ecco la Parola originaria dell’AT: amare Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze e amare il prossimo come se stesso; ma questa Parola è, allo stesso tempo, nuova perché il Signore Gesù, per primo, ha dimostrato come viverla, dando se stesso sulla croce, e perché l’amore di cui si parla nei vangeli deve essere rivolto ad ogni uomo. Il prossimo dell’Antico Testamento (AT) era colui che faceva parte del popolo dell’alleanza, mentre nel NT prossimo diventa ogni uomo, vicino o lontano, bianco o nero, cristiano o non cristiano.

L’amore per Dio deve essere concretizzato nell’amore per l’uomo. Ancora una volta l’apostolo Giovanni ci viene in aiuto: “Se uno dicesse: io amo Dio, e odiasse suo fratello, è un mentitore. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede non può amare Dio che non vede!” (1Gv 4,20). L’amore deve essere palpabile, si deve toccare con mano, in una parola: deve essere vero!

L’amore è la parola più inflazionata, come dicevo all’inizio, ed è la parola che ha bisogno, più delle altre, di diventare vita concreta. L’amore, l’agape, si è fatto uomo in Gesù di Nazareth e dall’incontro con lui possiamo anche noi diventare pane spezzato per i fratelli.

Nell’incontro con il Figlio di Dio, la Speranza si alimenta, la Carità si rende visibile e la Fede nasce e si consolida. La Chiesa è davvero il dono di vivere in relazione con Dio e fra di noi, aperti al mondo. Come diceva Papa Paolo VI, la Chiesa ha a cuore le sorti di tutti gli uomini e dell’umanità intera.

Forse rimane un ultimo punto da sviluppare. Come Cristiani, oggi, come possiamo interrogarci se davvero abitiamo la Carità? Mi viene in mente la parabola che racconta Luca (capitolo 18, versetti 9-14) del fariseo e del pubblicano al tempio a pregare. L’unico modo corretto di porsi di fronte al Signore, nella preghiera e nella vita, è quello di sentirsi costantemente bisognosi del suo perdono e del suo amore. Bisogna compiere opere buone, ma non si deve calcolarle, tanto meno vantarle. Come pure non bisogna fare confronti con gli altri. Il fariseo è sinceramente religioso e quello che dice è la pura verità. Egli considera la sua “santità” un dono di Dio, come purtroppo ritiene un dono di Dio la sua distanza dal pubblicano (sigh!). Non è dunque una qualche deformazione – all’interno però di un rapporto con Dio globalmente corretto ‑ che gli viene rimproverata, come si trattasse di semplice ipocrisia o di arroganza superficiale. È sbagliato invece l’intero modo di rapportarsi a Dio. Gli è rimproverata la radice, il sistema religioso nel quale vive! Gesù non afferma affatto che il fariseo avrebbe dovuto vivere come il pubblicano. Le sue opere sono buone, e tali restano. Non sono le sue opere a essere criticate, ma il modo di considerarle. E non perché egli le attribuisca a se stesso, come a volte si dice. In realtà il fariseo ipocrita le attribuisce a Dio: «Ti ringrazio». L’errore sta proprio nel guardare Dio alla luce delle proprie opere.

Per Gesù invece lo sguardo deve sempre andare dall’alto al basso, non dal basso all’alto: tutto da Dio a noi, non da noi a Dio. Abitare la Carità è avere questo sistema di riferimento, viverlo, testimoniarlo, difenderlo con la vita.

Note

[1] Carisma: dono di Dio dato al singolo credente o a un gruppo di persone per il bene di tutta la collettività. L’apostolo Paolo ne individua i principali nei carismi di governare, profetizzare, ammaestrare, parlare in lingue, interpretarle e compiere guarigioni (cfr. 1Cor 12,28-31).

[2] Nell’Antico Testamento abbiamo un esempio elevato di philia, tra Davide e Gionata, figlio di Saul, i quali furono legati da una profonda amicizia, dalla quale non si separarono mai se non a causa della morte in battaglia di Gionata (cfr. 1Sam capitoli 19, 20 e 25).

[3] Nazareth: Città di Israele sulle alture che dominano la piana di Esdrelon, capoluogo del distretto settentrionale e maggiore centro della Galilea. È sede di industrie meccaniche, alimentari e tessili. Araba già nel VII secolo, la città rimase sotto l’impero ottomano fino alla prima guerra mondiale e nel 1949 fu occupata e annessa dallo stato di Israele. Secondo il Nuovo Testamento, Nazareth ospitò la casa di Maria e Giuseppe e fu il luogo in cui Gesù trascorse l’infanzia. Per i numerosi luoghi sacri di memoria biblica, parzialmente ricostruiti dopo i mutamenti operati dai musulmani nel Medioevo, Nazareth è oggi meta di pellegrinaggi e di turismo. La chiesa dell’Annunciazione sorge nel luogo in cui si ritiene che l’Arcangelo Gabriele sia apparso alla Vergine, mentre la chiesa dedicata a San Giuseppe occuperebbe il sito della sua bottega di falegname. Abitanti: 60.000.

[4] Tratto dall’inno delle lodi mattutine nella celebrazione della Domenica della Santa Famiglia.

Le sette opere di misericordia corporali

Nel Vangelo di Matteo troviamo la narrazione del Giudizio Universale:

«In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli: “Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria con tutti i suoi angeli, si siederà sul trono della sua gloria. E saranno riunite davanti a lui tutte le genti, ed egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dai capri, e porrà le pecore alla sua destra e i capri alla sinistra. Allora il re dirà a quelli che stanno alla sua destra: Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo. Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi. Allora i giusti gli risponderanno: Signore, quando mai ti abbiamo veduto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando ti abbiamo visto forestiero e ti abbiamo ospitato, o nudo e ti abbiamo vestito? E quando ti abbiamo visto ammalato o in carcere e siamo venuti a visitarti? Rispondendo, il re dirà loro: In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me. Poi dirà a quelli alla sua sinistra: Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli. Perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare; ho avuto sete e non mi avete dato da bere; ero forestiero e non mi avete ospitato, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato. Anch’essi allora risponderanno: Signore, quando mai ti abbiamo visto affamato o assetato o forestiero o nudo o malato o in carcere e non ti abbiamo assistito? Ma egli risponderà: In verità vi dico: ogni volta che non avete fatto queste cose a uno di questi miei fratelli più piccoli, non l’avete fatto a me. E se ne andranno, questi al supplizio eterno, e i giusti alla vita eterna”» (Mt 25,31-46).

1. Dare da mangiare agli affamati
2. Dare da bere agli assetati

Queste due opere di misericordia complementari si riferiscono all’aiuto che dobbiamo dare in cibo e altri beni a chi più ne ha bisogno, a coloro che non hanno l’indispensabile per poter mangiare ogni giorno.

3. Ospitare i pellegrini

Anticamente, dare ospitalità ai viaggiatori era una questione di vita o di morte, dati i disagi e i rischi dei viaggi. Oggi non è più così. Ma potrebbe comunque accaderci di ricevere qualcuno in casa nostra, non per semplice ospitalità verso un amico o un familiare, ma per un vero caso di necessità.

4. Vestire gli ignudi

Quest’opera di misericordia tende a venire incontro a una necessità fondamentale: il vestito. Spesso ci viene richiesta la raccolta di indumenti. Nel momento di donare i nostri indumenti, è bene pensare che possiamo dare cose per noi superflue o che non ci servono più, ma anche qualcosa che ci è ancora utile.

5. Visitare gli infermi

Si tratta di una vera assistenza ai malati e agli anziani, sia in ciò che riguarda l’aspetto fisico, sia facendo loro compagnia per un po’ di tempo.

6. Visitare i carcerati

Consiste nel far visita ai carcerati, dando loro non soltanto un aiuto materiale ma un’assistenza spirituale, perché possano migliorare come persone e correggersi, magari imparando a svolgere un lavoro che possa essere loro di aiuto quando sarà terminato il periodo di detenzione. Invita anche ad adoperarsi per liberare gli innocenti e chi è stato sequestrato. Anticamente i Cristiani pagavano per liberare gli schiavi o si offrivano in cambio di prigionieri innocenti.

7. Seppellire i morti

Seppellire i morti sembra un ordine superfluo, perché, di fatto, tutti vengono seppelliti. Però, per esempio, in tempo di guerra può essere una necessità pressante. Perché è importante dare una degna sepoltura al corpo umano? Perché il corpo umano è stato dimora dello Spirito Santo. Siamo “tempio dello Spirito Santo” (1Cor 6,19).

Le sette opere di misericordia spirituali

1. Insegnare agli ignoranti

Consiste nell’insegnare all’ignorante le cose che non sa: anche in materia religiosa. È un insegnamento che può avvenire attraverso scritti o con parole, con qualunque mezzo di comunicazione o a voce.

2. Consigliare i dubbiosi

Uno dei doni dello Spirito Santo è il dono del consiglio. Per questo colui che vuol dare un buon consiglio deve, prima di ogni cosa, essere in sintonia con Dio, perché non si tratta di dare opinioni personali, ma di consigliare bene chi ha bisogno di una guida.

3. Correggere colui che si sbaglia

Quest’opera di misericordia si riferisce soprattutto al peccato. Infatti, quest’opera si può formulare in un altro modo: ammonire i peccatori. La correzione fraterna è spiegata proprio da Gesù nel Vangelo di Matteo: “Se il tuo fratello commette una colpa, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà avrai guadagnato il tuo fratello” (Mt 18,15). Dobbiamo correggere il nostro prossimo con mansuetudine e umiltà.

4. Perdonare le offese

Perdonare le offese vuol dire superare la vendetta e il risentimento. Significa trattare con amabilità coloro che ci hanno offeso. Il più grande perdono del nuovo Testamento è quello di Cristo sulla Croce, che ci insegna che dobbiamo perdonare tutto e sempre: “Padre, perdonali, perché non sanno quello che fan no” (Lc 23,34).

5. Consolare gli afflitti

La consolazione dell’afflitto, di colui che attraversa qualche difficoltà, è un’altra opera di misericordia spirituale. Spesso sarà completata dal buon esempio, che aiuti a superare questa situazione di dolore o di tristezza. Rimanere vicino ai nostri fratelli in ogni momento, ma soprattutto in quelli più difficili, significa mettere in pratica il comportamento di Gesù che s’immedesimava nel dolore altrui.

6. Sopportare pazientemente le persone moleste

La pazienza, quando si è alle prese con i difetti altrui, è una virtù ed è un’opera di misericordia. Tuttavia, ecco un consiglio molto utile: quando sopportare i difetti degli altri, causa più danno che bene, bisogna farli notare con molta carità e amabilità.

7. Pregare Dio per i vivi e per i morti

San Paolo raccomanda di pregare per tutti, senza distinzione, anche per chi ci governa e per le persone che hanno responsabilità, perché Egli “vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità” (1Tm 2,4). I morti che si trovano nel Purgatorio dipendono dalle nostre preghiere. È una buona opera pregare per loro affinché siano assolti dai loro peccati (cfr. 2Mac 12,45).

Foto di copertina: Elisabetta Sirani, La Giustizia accompagnata dalla Carità e dalla Prudenza, 1664, Vignola.
Il quadro è una combinazione allegorica di tre virtù (una virtù teologale, la Carità; due virtù cardinali, Giustizia e Prudenza), rappresentate tramite figure di donne.
Al centro sta la Giustizia, figura principale, e rappresentata con una spada nella destra, tenuta in alto come pronta a colpire (per punire), ed una bilancia (segno di equità) nella sinistra. Quest’ultimo oggetto è di dimensioni contenute e dunque poco visibile (diversamente dalla spada che risulta particolarmente evidente).
Alla destra della Giustizia si trova la Carità, raffigurata, come nell’iconografia tradizionale, come donna con tre bambini: un infante allattato, un bambino con una ciotola (per richiedere cibo) alle spalle, un bambino di fronte che tende le braccia verso la madre.
Alla sinistra della Giustizia sta la Prudenza, rappresentata con uno specchio in mano, tenuto con la sinistra ed additato con la mano destra: invitando la Giustizia a guardare nello specchio (strumento di autoconoscenza e dunque normativo).
Elisabetta Sirani dipinse all’età di 26 anni questo importante quadro per il fratello minore di Ferdinando II, Granduca di Toscana negli anni 1621-1670, Leopoldo de’ Medici (1617-1675), principe distintosi in ambito culturale per l’attività di mecenate, collezionista e studioso e. Non è improbabile che tra le motivazioni che spinsero Leopoldo a commissionare un quadro alla bolognese Elisabetta Sirani vi fosse l’interesse ad acquisire un dipinto realizzato da una donna per la sua vasta collezione di mirabilia. In effetti, una pittrice donna all’epoca era cosa rara.
Il quadro è stato acquistato nel 2003 dal Comune di Vignola, che ne è tuttora il proprietario.

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