Premessa
“Audiatur et altera pars”
Dei soldati delle Due Sicilie si è parlato poco e, nella maggior parte dei casi, con tono beffardo o con sprezzante sufficienza, alimentando così la novellistica “sull’esercito di Franceschiello”. Chi non ricorda le numerose barzellette di cui erano oggetto i soldati Napoletani? Quella che si riferisce al vario grado di marzialità che la truppa doveva assumere durante le sfilate: “Facite a faccia feroce!”; un po’ più avanti: “Facite a faccia cchiù feroce!”; poco prima di passare davanti alle autorità: “Facite a faccia ferocissima!”; subito dopo: “Facite a faccia e’ fessi”. E quel soldato che, durante la battaglia, chiede al suo capitano: “Capità fuimme?” e si sente rispondere dal suo comandante: “Aspettate l’ordine!”. E l’altra secondo cui, quando dovevano fare addestramento formale, non riuscendo le reclute a distinguere il piede destro da quello sinistro, si legava su uno di essi un pennacchietto e poi l’ordine di marciare veniva così scandito: “C’u pilo e senz’u pilo c’u pilo e senz’u pilo”. Così come l’allineamento, a destra e a sinistra, diventava: “Allineamento ‘ncoppa a panza ‘e don Ciccillo!”. Questo è il soldato borbonico che ci tramanda la storiografia ufficiale: imbelle, ignorante, furbastro, gretto e bigotto. In una parola, militarmente inesistente: nullo come soldato e come uomo.
Non abbiamo molto da imparare dagli Statunitensi, ma una cosa certamente sì: il rispetto per lo sconfitto soldato del Sud. L’occupazione yankee nel territorio degli Stati Confederati d’America non fu meno dura di quella piemontese nelle provincie del Regno, ma fu ed è esplicitamente riconosciuto il valore di quei vinti. Lo dimostrano un’ampia produzione letteraria, storica come romanzesca, ed una altrettanto vasta filmografia (anche in vicende cinematografiche ambientate nella Seconda Guerra Mondiale o in quella di Corea, si vede il soldato originario degli Stati meridionali che custodisce in tasca o nello zaino (la “Dixie Flag”).
In campo militare, poi, è significativa l’attribuzione a tipi di mezzi corazzati del nome di comandanti sudisti quali Lee e Stuart. Nel nostro esercito non si assegnano ai carri armati nomi di condottieri, ma, se così non fosse, sarebbe ipotizzabile un carro “Ritucci” o ”Bosco”? Basti pensare che, mentre la nascita dei reggimenti di origine piemontese viene fatta risalire ai più remoti manipoli di armigeri, nessun legame è mai stato riconosciuto tra i reggimenti di fanteria napoletani “Napoli”, “Calabria”, “Puglia”, “Abruzzo”, “Palermo”, “Messina” e i loro omologhi dell’esercito italiano. Questi ultimi, infatti, nascono soltanto ad unificazione avvenuta: e prima c’era il nulla.
Il nostro grande sovrano Ferdinando II dette, sotto questo profilo, una lezione di civiltà e di stile alle generazioni future quando consentì che uscissero dall’oblio le gesta dei soldati napoletani che avevano combattuto sotto Gioacchino Murat. Con la pubblicazione dell’Antologia Militare, diretta da Antonio Ulloa e iniziata nel 1835, cominciò infatti la rievocazione degli eventi passati anche se soltanto sotto i profili storico e tecnico-militare.
È ormai patrimonio universale l’amaro principio secondo cui le verità dei vinti sono bugie e le bugie dei vincitori sono verità e di queste ultime conosciamo il concetto informatore, espresso dall’umorista catanese Massimo Simili nel romanzo Lei Elena, ambientato nella Troia postbellica, con le parole che egli pone sulla bocca del supremo condottiero acheo Agamennone: “Il sommo Zeus ci è testimone che la Grecia visse sempre nel culto delle arti e dei lavori domestici e non cercò mai l’espansione. Se la Grecia si è espansa, ciò è stato solo per portare la civiltà e l’uguaglianza l’ove dominava la barbarie”.
L’amara ironia di Simili ci chiarisce bene le idee: il vinto è incivile e barbaro e, allora, che cosa vuole Taccia. E, se non gli riesce di redimersi, si faccia almeno dimenticare. Noi, invece, non vogliamo dimenticare il Soldato Napoletano, ma anzi ricordarlo e tramandarne alle nuove generazioni la memoria. Questo, perché un popolo non può rinnegare il proprio passato a pena di rinnegare sé stesso. Ciò, anche se è stato sconfitto, perché crediamo con Walt Whitman che “le battaglie si vincono o si perdono con identico cuore” e, con Rostand, che “più bello è battersi quando è invano”.
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La data di nascita dell’esercito delle Due Sicilie va collegata alla legge del 25 novembre 1743, con la quale il Re Carlo III dispose la costituzione di 12 reggimenti provinciali, tutti composti da cittadini del Regno, nonché di una compagnia di fucilieri da montagna, lontana antenata delle truppe alpine e le cui caratteristiche ordinative, di armamento e di equipaggiamento ne fecero il primo modello del genere nella storia moderna italiana.
Il 25 marzo dell’anno successivo, il neonato esercito subì il primo collaudo, contro gli Austriaci, alla battaglia di Velletri. Essa segnò la sua prima, grande vittoria, cui parteciparono reggimenti interamente napoletani, come il “Corona” ed il “Terra di Lavoro”, comandato dal Duca di Ariccia, e che ressero magnificamente il confronto con i reggimenti stranieri di più antica tradizione. In quel periodo – piccola curiosità storica – prestò servizio nel reggimento “Fonseca” Pasquale Paoli, il futuro capo dell’irredentismo corso: allorchè era ufficiale gli furono concessi sei mesi di congedo ed egli si recò nella sua isola a guidarne la lotta per l’indipendenza.
Negli ultimi anni del regno di Carlo III l’esercito era stato però trascurato e tale stato di cose si protrasse anche con il nuovo sovrano Ferdinando I finché la regina Maria Carolina non si fece promotrice del potenziamento e del sostanziale rinnovamento delle forze armate delle Due Sicilie, avvalendosi dell’Ammiraglio Irlandese John Acton, che, giunto a Napoli, nel 1778 e nominato Ministro della guerra e della marina, riorganizzò dapprima quest’ultima e successivamente le forze terrestri, iniziando la sua opera col formare una classe di ufficiali – quasi inesistente in quel momento – che conoscesse veramente il mestiere delle armi. A questo scopo istituì nel 1786 la “Reale Accademia Militare”, che il 18 novembre 1787 iniziò i propri corsi nell’ex collegio dei Gesuiti presso la chiesa dell’Annunziatella a Pizzofalcone.
Le forze armate, così rinnovate, sostennero più che degnamente la loro prova del fuoco all’assedio di Tolone, nel quadro dell’alleanza con l’Inghilterra contro la Francia. Seimila soldati napoletani parteciparono alla difesa della città e furono gli ultimi a reimbarcarsi. Il corpo di spedizione rientrò in patria il 2 febbraio 1794, avendo avuto circa 200 caduti e 400 feriti. Ugualmente degna fu l’attività della componente navale, fornita dal Re di Napoli per le operazioni in Mediterraneo e consistenti in quattro navi di linea, quattro fregate e altrettante unità minori. (…)
Ferdinando II salì al trono l’8 settembre 1830 e, fino dai primi anni del suo regno, dimostrò sia un vivo interesse per le forze armate sia il possesso di notevoli capacità militari. Paragonabile in questo a Federico Guglielmo I di Prussia, (…) Re Ferdinando si fece promotore di una legge sul reclutamento completa ed esauriente e migliorò moltissimo il sistema disciplinare, l’armamento e l’equipaggiamento.
Nel 1835 il Generale Francese Oudinot, in un libro intitolato De l’Italie et de ses forces militaires, scrisse: “L’esercito napoletano è istruito e molto bello. Le truppe che lo compongono sono oggetto di una sollecitudine attiva e illuminata da parte di un sovrano dotato di inclinazioni militari Infine esso possiede, in tutte le armi, ufficiali di alto merito”.
Nel 1848, poi il Capitano Le Messon, critico militare Svizzero di fama europea, scriveva che gli Italiani sarebbero stati grati a Ferdinando II per avere dato inizio alla nuova formazione dello spirito militare nella penisola. In sostanza l’esercito fu rinnovato moralmente, materialmente e tecnicamente in meno di dieci anni. (…) Vale, peraltro, la pena di osservare che Re Ferdinando si vide affibbiare l’appellativo di “re bomba” mentre Vittorio Emanuele II, che farà bombardare Genova, si accingeva a passare alla storia come ”re galantuomo”.
Molti anni sono passati ed oggi che l’Italia è impegnata in missioni all’estero, come nell’ex-Jugoslavia, con propri contingenti, gran parte degli uomini che ne costituiscono il nerbo, parla dialetti meridionali e, in particolare, campani. La Storia, come si vede, continua…