Francesco fu trattato ed educato subito quale erede al trono, a causa della prematura morte del fratello maggiore Carlo Tito (1775-78). Ricevette, a differenza del padre, una buona educazione e istruzione, ad opera in particolare del fisico pugliese F.S. Poli. Crebbe così con notevoli interessi di tipo scientifico, con una certa predilezione anche per la storia, mentre scarse furono le sue conoscenze del latino e delle altre discipline umanistiche. Buon naturalista, si cimentò non ancora ventenne nella botanica, pubblicando (secondo il Genoino) due brevi saggi: nel 1795 l’Istruzione per la coltura della pianta del cartamo (anonima, s.d.); nel 1797 una Memoria sulla coltura ed uso dell’erba dell’abbondanza (non rintracciabile).
A partire dal 1795, a compimento dei diciotto anni, venne ammesso ad assistere alle riunioni del Consiglio di Stato. Iniziava così il lungo periodo della sua vita da Principe ereditario. La sua indole indecisa e poco incline a mettersi in netto contrasto con i genitori lo portò, però, ad essere per lo più succube del decisionismo e della sicurezza materna o della regale volontà paterna. Pertanto, costretto a misurarsi con avvenimenti più grandi di lui, spesso non seppe fronteggiarli adeguatamente. La storiografia più avveduta tuttavia gli riconosce in queste situazioni alcuni meriti, come l’instancabile attività, la capacità di adoperare tatto e buon senso, la disponibilità a sacrificarsi per i suoi doveri di Principe e per la difesa del trono, della dinastia e degli stessi sudditi.
Il 25 giugno 1797 venne celebrato a Foggia il suo matrimonio con l’Arciduchessa d’Austria Maria Clementina, figlia dell’Imperatore Leopoldo II. Si trattava dell’ultimo atto di una politica di alleanza familiare tra Napoli e Vienna, iniziata fin dal 1785, che nel 1790 aveva portato ad altri due matrimoni tra cugini: due figli dello stesso Leopoldo II, Ferdinando e Francesco, avevano sposato le sorelle di Francesco, Luisa Amalia e Maria Teresa. Quell’anno era stato anche stilato l’accordo per le nozze di Francesco, ancora soltanto tredicenne, poi differite a lungo a causa delle grandi incertezze e turbamenti di quel periodo rivoluzionario. Solo nel 1797, in un momento di relativa calma tra Napoli e Parigi, Maria Clementina aveva potuto raggiungere il Regno di Napoli. Ma la calma doveva essere di breve durata. Nel dicembre 1798 Francesco partecipò alla Spedizione di Roma, trasformatasi presto in un ulteriore e grave tracollo militare, e nel gennaio 1799 fuggì col padre in Sicilia.
A Palermo Francesco non mostrò quella vivacità e attenzione per i problemi politici che Maria Carolina auspicava: rifuggiva la vita di Corte, preferendo una vita semplice, dedicata alle cure della campagna e alla famiglia (la tisica moglie, destinata a morire presto, nel 1801, e i figli, Carolina Ferdinanda Luisa nata nel novembre 1798, e il maschio primogenito Ferdinando, nato nell’aprile 1800 ma vissuto solo pochi mesi).
La riconquista di Napoli non lo vide protagonista: come il Re, anch’egli, nonostante le sollecitazioni del Cardinale Fabrizio Dionigi Ruffo dei Duchi di Bagnara e Baranello (politico e generale, famoso per aver fondato e comandato l’Esercito della Santa Fede, principale arma anti-giacobina che segnò la fine della Repubblica napoletana del 1799), non partecipò alle operazioni. Nella capitale si recò solo nel 1801 in qualità di Luogotenente del padre, ancora in Sicilia. Ricoprì tale incarico fino al ritorno di Ferdinando IV nel giugno 1802 e in tale veste ricevette il Generale Murat, inviato di Napoleone. Nel corso di questi mesi si mostrò “freddo di carattere, senza iniziativa, … ubbidiente fino allo scrupolo agli ordini del padre” (Genoino, pp. 49 s.).
Nel settembre 1802 Francesco mise fine al periodo di vedovanza, sposando la cugina Isabella, figlia del fratello del padre, Carlo IV di Borbone, Re di Spagna, nell’ambito di una ripresa degli stretti rapporti con la Spagna, che spingeva anche al contemporaneo matrimonio della sorella Maria Antonia con l’erede al trono spagnolo Ferdinando. Dalla moglie avrà, come costume della sua famiglia, una numerosissima figliolanza.
Negli anni della prima restaurazione borbonica, Francesco non ricoprì un ruolo di rilievo, e ritornò in primo piano solo agli inizi del 1806, quando non condivise la ingloriosa fuga anticipata del padre e, nominato suo Vicario, lasciò la capitale alcune settimane più tardi alla vigilia dell’arrivo delle truppe francesi. Sbarcato a Sapri, cercò di organizzare la difesa prima in Basilicata e poi in Calabria, sollecitando inascoltato la partecipazione popolare. Seguì poi la ritirata dell’esercito, precedendolo solo di due giorni nell’abbandono del continente.
Nel secondo ben più lungo periodo siciliano, Francesco riprese la vita rustica, e a Boccadifalco creò un’azienda agricola modello dove sperimentava nuove tecniche di coltivazione, di irrigazione e di allevamento. Rispetto al conflitto in corso e ai difficili rapporti con le variegate forze politiche e sociali in campo ebbe un atteggiamento molto prudente: timoroso di affidarsi ciecamente all’ingombrante alleato, ma conscio allo stesso tempo della necessità di avere con esso un accordo sostanziale e sincero; insofferente come il padre nei confronti dei diritti e dei privilegi reclamati dalla nobiltà siciliana, ma anche proteso a non perdere il suo sostegno e perciò pronto a fare concessioni. In un primo momento il suo atteggiamento nei confronti dell’aristocrazia fu molto deciso: in qualità di Vicario del Re presso il Parlamento siciliano, convocato nel 1810 per deliberare nuovi tributi per la guerra, sollecitò i nobili a passare da elargitori di donativi a “contribuenti, obbligati come cittadini a sostenere le pubbliche spese” (Genoino, p. 72). Per la loro ferma opposizione decise con il padre e il governo di adottare la contribuzione senza il consenso del Parlamento. Nel 1811 un Consiglio di Stato da lui presieduto, in qualità di Comandante supremo dell’esercito siciliano, deliberò di far arrestare e deportare i capi dell’opposizione aristocratica. Questo atto segnava, però, l’inizio del grave contrasto della Corte con il Governatore inglese in Sicilia, Lord W. Bentinck, di lì a poco giunto al suo acme per la scoperta degli accordi stilati dalla Regina Maria Carolina con i Francesi (congiura di Messina). Francesco veniva a trovarsi così in una posizione delicata, diviso tra l’affetto filiale e l’opportunità politica, che gli imponeva di non contrastare fino alle estreme conseguenze il potente lord inglese, pronto a togliere il potere alla sua famiglia se il governo dell’isola non fosse passato completamente ai Siciliani, inclusi gli esiliati da richiamare, e se Ferdinando IV non avesse rinunciato a occuparsi del governo della Sicilia. Da qui le pressioni di Francesco nei confronti del padre per ottenere la gestione degli affari siciliani e la nomina, avvenuta nel gennaio 1812, a Vicario Generale.
Ebbe così inizio l'”inglorioso vicariato” (Genoino), due anni e mezzo circa, caratterizzati dai compromessi con il Bentinck per non perdere i diritti su Napoli o almeno sulla Sicilia, che finirono in una sostanziale sottomissione al potente alleato. La concessione della Costituzione, i conseguenti frequenti rapporti con il Parlamento, gli inevitabili contrasti con i genitori furono tutti atti subiti, l’effetto di una situazione di necessità piuttosto che di posizioni liberali. A nulla valsero i buoni rapporti con il Bentinck in occasione degli acuti contrasti tra il Governatore inglese e i suoi genitori: nel marzo 1813, ad esempio, il tentativo di Ferdinando IV di riprendere il pieno potere fu duramente respinto, mentre nel giugno Maria Carolina fu costretta a recarsi in esilio a Vienna. L’incapacità di Francesco di contrastare gli Inglesi portò di fatto in quel periodo all’esautoramento dei Borbone nella politica estera della Sicilia, mentre il Bentinck e l’Austria intrattenevano preoccupanti contatti con Re Gioacchino Murat, per il quale si profilava la possibilità di conservare il trono napoletano, nonostante la sconfitta di Napoleone.
Tale situazione ebbe termine con il ritorno al pieno potere in Sicilia di Ferdinando IV nel luglio 1814, proprio mentre iniziava a farsi strada nel blocco antinapoleonico il principio di legittimità. Nel maggio dell’anno successivo il Re, tornato sul trono napoletano per effetto del Trattato di Casalanza, nominò Francesco Luogotenente per la Sicilia. In occasione di questo incarico, ricoperto fino al 1820, deluse però le aspettative dei Siciliani che volevano la convocazione del Parlamento per portare a compimento la Costituzione del 1812. Egli non solo non si impegnò in tal senso ma anzi non mosse un dito contro la “legge fondamentale” del dicembre 1816, che, ottemperando alle direttive del Congresso di Vienna, unificava i due Regni di Napoli e Sicilia, abolendo contestualmente la Costituzione. Allo stesso tempo però si può ritenere valida la sua azione moderatrice, volta a “temperare l’intransigenza dei Napoletani e dei Siciliani”, mentre la sua semplice presenza aveva il merito di appagare “in qualche modo il sogno di indipendenza di questi ultimi” (Cortese, La prima rivoluzione separatista, p. 22). Sul piano concreto i risultati principali del quinquennio luogotenenziale riguardarono, nel campo privato, i consueti esperimenti agrari, che fecero di Boccadifalco un’azienda agricola e zootecnica modello, e, in quello amministrativo, alcune riforme del comando militare dell’isola, degli istituti femminili di educazione e della rete stradale attorno a Palermo.
L’impegno di Luogotenente non comportò una permanenza continua in Sicilia. Spesso si recò a Napoli: ad esempio nel 1816, in occasione del matrimonio della figlia primogenita con Carlo Duca di Berry, e nel 1818-19, per un viaggio a Roma e il matrimonio della seconda figlia col fratello del Re di Spagna. A Napoli Francesco, che da qualche anno si fregiava del titolo di Duca di Calabria, tornò definitivamente il 2 luglio 1820, lo stesso giorno in cui scoppiavano a Nola i moti carbonari. La rivoluzione del 1820 lo coinvolse subito e pienamente. Già il 6 luglio il Re lo nominò Vicario Generale, nel tentativo di imbrigliare la rivolta; e il giorno dopo Francesco accordò la Costituzione spagnola, subito ratificata anche dal padre. Iniziava così un periodo di poco oltre otto mesi che vide Francesco tra i maggiori protagonisti. Ancora una volta si trovò a svolgere un ruolo di mediatore tra le varie forze in campo: il Re, intimamente avverso al cambiamento; i murattiani e i democratici moderati, ai quali affidò i principali incarichi nel nuovo governo; i carbonari e i democratici più radicali, di fatto estromessi dal potere. Assumendo posizioni più nette che in passato, finì col divenire un sostenitore della Costituzione spagnola il suo comportamento fu quindi costantemente omogeneo alla saldatura che venne a determinarsi tra la destra dei vecchi centri di potere e la sinistra più moderata. In questo quadro Francesco svolse in pieno il suo compito per la trasformazione dello Stato: dalla nomina dei nuovi ministri (tra cui G. Zurlo agli Interni, M. Carrascosa alla Guerra, L. Macedonio alle Finanze) alla scelta dei quindici membri della giunta provvisoria di governo (9 luglio), dall’indizione delle elezioni (agosto-settembre) alla inaugurazione del Parlamento (1° ottobre). Spesso si fece portavoce presso il padre dell’esigenza di superare i momenti di rigidità e di comportarsi con sostanziale lealtà nei confronti del movimento costituzionale. Così ottenne la presenza del Re all’inaugurazione del Parlamento, dove da parte sua pronunziò un discorso genuinamente filoliberale, in cui individuava uno stretto collegamento tra la Costituzione e la dinastia.
Un ruolo di primo piano Francesco ebbe in occasione della rivoluzione separatista siciliana, scoppiata alle prime notizie del moto napoletano. Dopo un iniziale atteggiamento moderato, di fronte al dilagare della rivolta si orientò verso l’intervento armato, mentre il governo costituzionale preferiva attendere il Parlamento. Le sue continue sollecitazioni ebbero quindi un peso importante nella decisione presa a fine agosto di inviare una spedizione militare e nella scelta del suo comandante, il Generale Florestano Pepe, legato al Principe da buona amicizia. Dopo la capitolazione di Palermo del 7 ottobre, e la stipula di un trattato da parte del Pepe che concedeva un proprio Parlamento alla Sicilia, Francesco si abbandonò suo malgrado alla corrente generale che vedeva il governo, il Parlamento e lo stesso sovrano contrari alla convenzione. Da qui la mancata approvazione del trattato e la sostituzione del Pepe con P. Colletta a fine ottobre.
Nei mesi successivi Francesco continuò ad occuparsi attivamente della questione siciliana, per l’aggravarsi della rivolta, e nel febbraio prese di nuovo decisamente l’iniziativa per dare all’isola un proprio governo, ma ormai era troppo tardi e la parentesi costituzionale volgeva alla fine. Già nel novembre nel Congresso della Santa Alleanza a Troppau era stato prospettato un intervento armato austriaco. La crisi raggiungeva il suo acme quando all’inizio di dicembre perveniva al Re Ferdinando I l’invito di recarsi a Lubiana per discutere sull’assetto del Regno. Francesco conservò in questa circostanza una sostanziale lealtà nei confronti del Parlamento e della Costituzione, e si batté perché il padre chiedesse preventivamente ai rappresentanti del popolo il permesso di allontanarsi dal Paese per perorare la causa costituzionale. La partenza del Re comportò anche la crisi del governo e la sostituzione dei ministri con alcuni esponenti politici di secondo piano; degna di nota fu soltanto la nomina di M. Mastrilli Duca di Gallo agli Affari Esteri. La collaborazione che seguì tra il nuovo gabinetto e il Vicario, ora Reggente, non fu però paragonabile a quella intessuta con il governo precedente.
L’attivismo di Francesco si ridestò ai primi di febbraio 1821 quando si profilava ormai sicuro il pericolo bellico. Di fronte alle compromettenti lettere inviate dal padre da Lubiana e agli inviti delle potenze alleate a demolire il sistema costituzionale, egli confermò la lealtà verso le istituzioni liberali e indisse per il 13 febbraio una convocazione straordinaria del Parlamento per la dichiarazione di guerra. Nei giorni successivi svolse un ruolo primario nella guerra, pur tenendosi lontano dai campi di battaglia, grazie al rapido svolgimento degli eventi bellici. Come Presidente del Consiglio della difesa e Comandante supremo dell’esercito si impegnò notevolmente per i preparativi e i piani di guerra. Dopo la sconfitta del Generale Guglielmo Pepe a Rieti (7 marzo) egli continuò a stare al suo posto sperando in un rivolgimento favorevole, fino alle diserzioni in massa del 10 marzo e al successivo impegno per conservare tranquillità e ordine a Napoli.
Con la restaurazione dell’assolutismo Francesco si venne a trovare nell’ambigua posizione di esponente non secondario del regime che ora era oggetto della repressione, e di numero due della dinastia per la quale era stato messo in pratica il principio di legittimità. L’ambiguità fu accentuata dal fatto che nelle prime settimane si trovò a rappresentare il padre, ancora lontano da Napoli, nelle riunioni degli alleati sulle indennità di guerra e sulle sanzioni da comminare ai liberali. Già in questa sede comunque si adoperò per mitigare i provvedimenti, come anche durante la successiva repressione voluta dal Ministro degli Interni, A. Capece Minutolo Principe di Canosa, spesso ottenne di attenuare le pene o consentire gli espatri di ministri e militari liberali con cui aveva collaborato attivamente nel nonimestre costituzionale. Per il resto, Francesco preferì tenersi piuttosto in disparte, deluso nel sentirsi accusato di tradimento dai reazionari come dai liberali; giunse così, per lo scotto subito nei molti periodi in cui aveva sostituito il padre, a rifiutare il Vicariato durante la lunga assenza del Re dal settembre 1822 all’agosto 1823 (per il Congresso di Verona e un lungo soggiorno in Austria), limitandosi ad accettare la presidenza del Consiglio di Stato.
Di questa fase sono da segnalare anche alcuni brevi viaggi nel Paese, su uno dei quali scrisse le sue impressioni: Giornale del giro fatto nelle isole di Procida e di Ischia da S. A. R. il Duca di Calabria, nel mese di luglio dell’anno 1822, Napoli s.d.
Dopo la morte del padre (3-4 gennaio 1825) ebbe inizio la seconda fase della vita di Francesco, durata solo sei anni. Fin dall’inizio si comportò in modo assai diverso dal principe liberale del 1820-21, e il suo breve regno si caratterizzò in modo sostanzialmente reazionario anche per le esigenze di politica estera, la perdurante ingombrante presenza dell’esercito austriaco e il controllo della diplomazia internazionale che temeva il suo passato. La sua netta svolta politica inoltre fu dovuta alle notevoli pressioni degli ambienti più retrivi del paese, tornati a gestire il potere centrale e locale, e alla scoperta di molteplici pseudocongiure, molto spesso costruite dalla stessa polizia e dai militari inviati a prevenirle. In questo clima, in cui si rafforzava sempre più lo Stato di polizia e dove la pubblica amministrazione era fatta oggetto di un continuo duro processo di epurazione, Francesco si abbandonò raramente a gesti di liberalità, temendo che il potente alleato, da cui doveva farsi perdonare i trascorsi filocostituzionali, potesse scambiarli per una promessa di liberalismo. Ai primi due indulti del 1825 non ne seguirono altri, i richiami degli esiliati furono sporadici e parziali, anche se non raramente Francesco intervenne per mitigare le pene comminate dai tribunali ai congiurati e per graziare i condannati a morte. Il suo comportamento nei confronti di questi problemi fu quindi più mite di quello dei suoi ministri e generali, che arrivarono a un livello di durezza estraneo al sovrano; un esempio fu la repressione del moto del Cilento nel 1828 ad opera di F.S. Del Carretto, che rase al suolo la cittadina di Bosco senza aver chiesto l’assenso del Re. Tuttavia nel complesso, rispetto agli anni precedenti, ci fu una più attenta e spietata repressione verso le sette e i settari.
Anche in questo campo quindi il regno di Francesco si collocò in una linea di sostanziale continuità con quello di Ferdinando I. Lo dimostrava già il fatto che, salito al trono, Francesco non tenesse alcun discorso programmatico né ritenesse necessario cambiare alcun ministro. Rimasero quindi in posizione egemone D. Tommasi, Ministro della Giustizia, e ancor più Luigi de Medici, che racchiudeva nelle sue mani le cariche di Presidente del Consiglio, Ministro degli Esteri e delle Finanze. Fu il Medici a teorizzare, e di fatto a imporre a Franceso, che non vi dovesse essere alcuna importante innovazione nei metodi di governo e di amministrazione, ma solo qualche lieve modifica. Così non ebbe alcuno sbocco la ventilata e naturale apertura verso i gruppi moderati della borghesia murattiana. Nessuna importante trasformazione fu compiuta nel campo economico o delle opere pubbliche, con quelle poche e limitate eccezioni consentite dal deficitario bilancio dello Stato (la costruzione del palazzo dei ministeri e della strada per le Calabrie, l’effettuazione di alcuni lavori di bonifica).
Nei primi anni di regno il principale obiettivo della politica estera di Francesco e del Medici riguardò l’allontanamento del corpo di occupazione austriaco, sia perché strumento principale dell’eccessivo controllo dell’alleato nella vita del paese, sia perché gravosissimo onere per le deficitarie casse statali e quindi principale motivo del forte indebitamento pubblico. In un incontro con l’imperatore Francesco I a Milano, nel maggio 1825, Francesco riuscì ad ottenere una riduzione delle truppe di occupazione e quindi delle spese, ma dovette subire circa un anno di proroga della loro partenza, rispetto alla data inizialmente prevista del maggio 1826. La partenza del febbraio 1827 fu comunque considerata un successo della diplomazia di Francesco, viste le intenzioni del Principe di Metternich di prorogare ulteriormente l’occupazione. Per sostituire l’armata austriaca, non fidandosi eccessivamente del nuovo esercito nazionale, il Re portò a compimento un accordo, già trattato dal padre, per la costituzione di alcuni reggimenti svizzeri. Per il resto la politica estera sua e del suo governo fu di scarso rilievo, tesa a conservare buoni rapporti con tutte le potenze europee. Solo nei confronti del Bey di Tripoli, che pretendeva nel 1828 una tangente per rispettare il trattato stipulato dal padre, mostrò grande fermezza e inviò una forte squadra navale. La spedizione si risolse in un sostanziale fallimento sul piano militare, ma ebbe successo sul piano politico.
Una delle principali occupazioni di politica estera di Francesco fu rivolta, come consuetudine, alla stipula di buoni accordi matrimoniali con altre case regnanti d’Europa. L’ultimo di tali accordi fu anche il più importante: più per caso che per un preciso disegno politico ci si rivolse ancora una volta alla Spagna, dove il Re Ferdinando VII, che aveva avuto per prima moglie la sorella di Francesco, Maria Antonietta, era rimasto vedovo per la terza volta. In tempi rapidi si organizzò quindi il matrimonio di costui con la figlia di Francesco, Maria Cristina. In questa occasione Francesco fece un lungo viaggio, via terra, e restò lontano dal Regno – dove nominò come Reggente il giovane figlio Ferdinando – dal 28 settembre 1829 al 30 luglio 1830. Fu questo un periodo denso di incontri: durante il viaggio di andata, con il Papa Pio VIII e con il Granduca di Toscana; nel viaggio di ritorno, con il Re di Francia Carlo X, mentre già scoppiava la rivolta (giugno 1830). Infine a Genova con i Savoia, dove vennero presi probabilmente i primi accordi per il futuro matrimonio del figlio di Francesco, Ferdinando, con la figlia di Vittorio Emanuele I, Maria Cristina.
Tornato a Napoli, nell’agosto Francesco ricevette la sollecitazione della sorella Maria Amalia, moglie del nuovo Re di Francia Luigi Filippo, di concedere la Costituzione, ma il suo buon senso politico, che l’aveva portato nel 1820-21 a prendere posizioni filoliberali, era radicalmente mutato, troppo condizionato dalla paura delle reazioni austriache per un atto così rivoluzionario. Il Re era preso pressoché esclusivamente dalle consuete occupazioni ludiche dei sovrani, in special modo dalla caccia, nonché dalla melensa vita di corte, in cui non mancavano i più squallidi intrighi. Allo stesso tempo era preso da non trascurabili problemi di salute, che lo condussero a prematura morte a 53 anni, l’8 novembre 1830 a Napoli.
Si dice che prima di morire abbia gridato: «Che cosa sono queste voci? Il popolo vuole la Costituzione? Dategliela!» (Vittorio Visalli, I Calabresi nel Risorgimento italiano, Brenner Editore 1989, p. 291).
Fonte: Dizionario biografico Treccani [QUI]
Foto di copertina: Carlo de Falco, Ritratto di Francesco I delle Due Sicilie (1777-1830), 1827-1829 circa, olio su tela, 250×165 cm, appartamento ottocentesco, anticamera della stanza da letto di Francesco II, Reggia di Caserta.