Spes non confundit – I Confratelli Costantiniani pellegrini di speranza – Il significato del giubileo nell’Antico e nel Nuovo Testamento

Riportiamo di seguito il testo del podcast, a cura del Referente per la Formazione della Delegazione di Roma e Città del Vaticano del Sacro Militare Ordine Costantiniano di San Giorgio, Prof. Enzo Cantarano, Cavaliere di Merito con Placca d'Argento, ispirato al volumetto Il significato del Giubileo. L’anno santo dalla Bibbia ai nostri giorni (EDB 2015, 88 pagine) del biblista e studioso dell’ebraismo, Cardinale Gianfranco Ravasi, Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, che risale prima ai testi fondamentali delle Scritture in cui si delinea il valore religioso e sociale del giubileo e poi a quelli dai quali se deduce il suo senso Cristiano.
Giubileo de 1300

Podcast 2-3 – 24 settembre 2024 – Il significato del giubileo nell’Antico e nel Nuovo Testamento

Oltre ai riferimenti giubilari espliciti, nella Bibbia se ne trovano altri che rimandano indirettamente ai valori del Giubileo: giustizia, economia solidale, liberazione, perdono, comunione fraterna, misericordia. Dal punto di vista biblico, quelli giubilari sono temi radicati nell’Antico Testamento transitati, mutatis mutandis, nella tradizione Cristiana e nell’esperienza umana più profonda e assolutamente attuali.

La parola “giubileo” si fa risalire all’eco del suono del corno di montone (jobel) che dal monte di Sion, su cui sorge Gerusalemme, squarcia l’aria e balza di valle in valle per tutto l’Israele storico ad annunciare novità vitali: il riposo della terra, la remissione dei debiti e la restituzione della terra, la liberazione degli schiavi, il pellegrinaggio, il Regno di Dio nella storia, il tempo e l’utopia. Vediamo questi temi giubilari fondamentali uno ad uno.

Il riposo della terra

Secondo le indicazioni di Levitico 25, la terra deve riposare durante l’anno giubilare che viene dopo sette settimane di anni. Questo riposo era previsto, in realtà, ogni sette anni indipendentemente dalla ricorrenza giubilare. Ovviamente, se le due ricorrenze di riposo non coincidevano, non era materialmente impossibile non coltivare e non raccogliere i frutti della terra per due anni di seguito anche in una società dall’ esigenze minimali come quella, inizialmente quasi esclusivamente pastorale di Israele. In questo caso “il riposo” era più un auspicio, uno sguardo oltre il consueto modo di vivere. Questo fa scoprire le la terra è un dono, perché, anche se poco, qualcosa produce ugualmente anche se non coltivata. I cicli della natura non dipendono, infatti, solo dal lavoro dell’uomo, ma qualcun Altro che ha il primato su quanto di umano esiste. Durante l’anno giubilare non esistono più recinzioni o barriere e questo manifesta il riconoscimento della destinazione universale dei beni che precede ogni proprietà privata. Tutto è disponibile per tutti.

La remissione dei debiti e la restituzione della terra al primitivo proprietario

Dopo la conquista di Canaan, il libro di Giosuè (cc 13-21) ci narra della spartizione di quel territorio tra le 12 tribù di Israele con l’eccezione di quella di Levi che viveva dei contributi delle altre per il suo servizio al Tempio. Ogni volta che si verificavano mutamenti di proprietà si veniva meno alla suddivisione voluta da Dio. Qualcosa di simile si verificava per quanto riguardava i debiti. All’inizio tutti erano partiti con pochi beni al loro arrivo nella Terra Promessa. Poi qualcuno si era arricchito e qualcun altro aveva contratto debiti per sopravvivere. Dopo 50 anni tutti tornavano al punto di partenza ed ogni proprietà, mobile ed immobile veniva restituita a Dio che la redistribuiva alle varie tribù. In un appello del libro del Deuteronomio questo rinnovamento sociale era offerto come il modello da costruire insieme pur nella consapevolezza che si trattava di un ideale mai pienamente raggiungibile: “Così, non vi sarà nessun povero in mezzo a voi, poiché il Signore senza dubbio ti benedirà nel paese che il Signore, il tuo Dio, ti dà in eredità, perché tu lo possegga.” (Dt 15,4).

La liberazione degli schiavi

È un tema forte che ritroviamo nel libro di Ezechiele (46,17). Nell’anno giubilare, Israele tornava ad essere il popolo dell’Esodo, libero dalla schiavitù d’Egitto e da ogni schiavitù. Anche questa è una proposta ideale, ma non si trattava solo di tematiche appartenenti al passato o ad un futuro ipotetico: anche oggi osserviamo tante forme di nuova schiavitù ed il risuonare della parola giubilare sulla libertà ha un profondo significato anche nel nostro tempo.

Il pellegrinaggio

Non è esplicitato nel testo biblico, ma è fondamentale all’interno della tradizione biblica e Cristiana successiva. Infatti la Bibbia stessa è un lungo e costante viaggio: dall’uscita dei Progenitori dall’Eden, a quella di Abramo dalla sua terra verso la Terra Promessa (Gen 12,1), all’esodo dall’Egitto,… Israele si considererà sempre come un popolo in marcia, gente nomade e senza una dimora fissa. Le tre grandi feste ebraiche prevedevano tutte il pellegrinaggio a Gerusalemme ed anche il Kippur, era, in sostanza, un itinerario verso la Città Santa in cui si viveva l’esperienza della Purificazione. E l’ultima parola del Nuovo Testamento è un verbo di movimento: “Vieni, Signore Gesù!” Ma con un moto inverso a quello descritto in precedenza. È un pellegrinaggio di Dio verso l’uomo (Cfr. anche Gv 4,23), non più dell’uomo verso Dio. Si incontreranno dopo essersi messi tutti e due in cammino.

Il regno di Dio nella storia. In realtà è un tema proposto da Gesù stesso. Nel Nuovo Testamento e, quindi anche nei Vangeli, non compare mai la parola giubileo. In realtà essa non appare nemmeno nel Vecchio Testamento, almeno nella sua traduzione  in greco detta dei Settanta: i traduttori, infatti, resero la parola jobel con áphesis cioè remissione, liberazione, perdono. Lo stesso termine lo troviamo in bocca a Gesù nel discorso nella Sinagoga di Nazareth riportato solo dal Vangelo di Luca, noto anche come Vangelo della Misericordia, al capitolo 4, 18-19: “Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione, e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi, e predicare un anno di grazia del Signore”. Il Regno di Dio è qui ed ora come si evince dai verbi coniugati al presente nel Discorso delle Beatitudini (Lc 6, 20 e Mt 5, 3 e 10).

Il tempo

Gli Ebrei scandivano il loro tempo di 50 anni in 50 anni. Il tempo può avere due volti: uno, marginale nel nostro discorso e puramente fisico ed oggettivo, un altro fondamentale se lo consideriamo dal punto di vista esistenziale. Nel Nuovo Testamento il primo è detto chrónos, il secondo kairós e il giubileo ci sottolinea l’intersezione tra l’eterno ed il tempo, infatti Dio è nel tempo, non solo nell’eterno, anzi, quest’ultimo entra nel primo. Capire questo è una grazia che si ottiene attraverso l’abbandono totale all’azione dell’eterno dentro di noi. È un’attività mistica! Il giubileo dovrebbe richiamarci al valore del tempo come spazio in cui si è verificata l’Incarnazione del Verbo eterno nella sarx, la carne, la realtà concreta del nostro fluire (Gv 1,1.14, ma, anche, EG 22-225).

L’utopia

Già, sembra utopia pensare che gli Ebrei facessero alla lettera quanto detto sopra. I profeti lamentano, infatti, che essi facevano esattamente il contrario.  Eppure Dio continua a proporre qualcosa che va oltre l’ordinario, oltre la politica, l’economia, la logica, lo stesso buon senso. Forse perché non si accontenta del nostro vivacchiare umano, ma ci chiede, con Gesù sul Monte delle Beatitudini, di essere “perfetti come lo è il Padre vostro” (Mt 5,48)? Forse per questo lo Spirito semina nel cuore dei credenti l’inquietudine per raggiungere i più ampi e grandi orizzonti, per creare un mondo diverso.

Ma, allora, il Giubileo è solo una celebrazione ebraica secondo la tradizione passata anche nel Cristianesimo oppure lo è anche propria del Gesù storico? Lo abbiamo visto annunciare da lui nel suo discorso nella Sinagoga di Nazareth proposto nel Vangelo di Luca e solo in esso. Abbiamo prima accennato che quello di Gesù è un giubileo particolare. Più che lo jobal dell’Antico Testamento si incarna, è proprio il caso di dirlo, nell’aphesis greco con cui il termine veterotestamentario è stato reso dai Settanta Traduttori. Non è più “giubilo”, ma “liberazione”, non è più storico, ma spirituale e sociale. Il termine ricorre 17 volte nel Nuovo Testamento, dieci delle quali lo troviamo negli scritti di Luca mediante i quali l’Evangelista ci propone l’anima stessa del giubileo secondo Gesù.

Innanzitutto, come abbiamo visto, il suo “anno di grazia del Signore” è proclamato dal Cristo nella Sinagoga di Nazareth ed ha un rilievo tutto particolare, strutturale, nella trama del Vangelo di Luca. Anche perché, non è presente in nessuno degli altri. Solo Luca lo riporta e lo fa diventare una grande dichiarazione di principio da parte di un Gesù nella sua veste di Profeta ispirato: “Lo Spirito del Signore è sopra di me” e riecheggiando, alla lettera, Isaia 61,1. Questo testo era la dichiarazione che il Profeta faceva riguardo a se stesso come di uno inviato da Dio per portare una parola di conforto nelle tribolazioni del suo popolo. Cristo si appropria del ruolo come ultimo e definitivo Profeta e Messia, colui che, ispirato e unto dal Signore, reca a tutto il mondo la parola di liberazione e salvezza definitiva.

Quale è la missione profetica di Gesù? Essa ha cinque pilastri che sosterranno e sostengono ancora oggi il vero Giubileo cristiano, strutturato da elementi antichi e da altri, nuovi ed inattesi.

Annunziare ai poveri un lieto messaggio

Lieto messaggio, in greco è euanghelios, vangelo. Dire un lieto messaggio, in greco, è euanghelizesthai, evangelizzare. Vangelo ed evangelizzare ricorrono 54 volte nel Nuovo Testamento e di queste 25 in Luca. Evidentemente i termini gli sono cari e, infatti, il suo Vangelo è attraversato dalla gioia, dalla speranza che viene proclamata ai poveri, ptochoi, pitocchi. A proposito di questa parola, bisogna notare che essa ricorre 34 volte in tutto il Nuovo Testamento di cui 10 in Luca.

Ma chi sono questi “poveri”? Nell’Antico Testamento il termine usato per loro era ‘anawim, cioè “coloro che sono curvi” perché calpestati dai ricchi e, soprattutto, perché, dalla loro situazione erano indotti a riconoscere il primato di Dio su ogni cosa.

A Luca piace rimarcare la dimensione sociale degli uomini tanto è vero che nella sua versione del discorso delle Beatitudini ama sottolineare il “voi” riferito ai poveri cosa che Matteo non fa. È un rimando concreto perché Gesù viene anche ad annunciare una giustizia sociale che condanna una religiosità distaccata dalla storia e limitata a formule, riti, incensi, esteriorità, pompa e “latinorum”. Nella visione di Gesù i poveri sono i veri destinatari di ogni attenzione e cura.

Proclamare ai prigionieri la liberazione e rimettere in libertà gli oppressi

Prigionia ed oppressione sono schiavitù parallele da spezzare perché l’uomo possa ricominciare la sua vita. Già nell’Antico Testamento il giubileo era remissione, amnistia e liberazione e Gesù si allinea a questa tradizione, ma si presenta come il vero ed unico liberatore. Libertà essenziale in cui “adorare in spirito e verità” (Gv 4, 23-24), ma, anche, impegno storico, sociale, verso tutti gli schiavi di ogni tempo. Ovviamente la prima liberazione che tutti dobbiamo invocare e quella dal peccato dal momento che ne siamo tutti schiavi. E ogni volta che Dio ci perdona e rimette a noi i nostri debiti è, per noi, una liberazione giubilare dal momento che il giubileo è anche il tempo privilegiato della riconciliazione con Dio.

Dare la vista ai ciechi

Al tempo di Gesù e nella sua terra le patologie oculari, tra cui la cecità, erano molto diffuse per vari motivi climatici, igienici, genetici…, ma la frase del Signore è carica di valenze simboliche perché questa guarigione era considerato nell’Antico Testamento il segno di riconoscimento, la firma quasi, del Messia atteso. E ovviamente il gesto fisico di ridare la vista può assumere una dimensione spirituale: fa cadere ogni ostacolo al riconoscimento della signoria di Dio e del suo progetto di vita e di salvezza eterna.

Predicare un anno di grazia del Signore

È il quinto ed ultimo pilastro del discorso di Gesù nella Sinagoga di Nazareth, che ci presenta una frase profondamente giubilare quando afferma: “Sono stato inviato per predicare un anno di grazia del Signore”. A cosa ci rimanda la locuzione “anno di grazia” se non proprio al nostro giubileo, l’anno definitivo perché, appunto, perfetto per grazia? Ma noi siamo chiamati a superare l’angusto orizzonte temporale di Israele, un anno speciale in cui accogliere la grazia di Dio per accedere a quello del Signore Gesù dal momento che è lui la Grazia e non per un anno per l’eternità. La stessa parola che Luca fa usare a Cristo, “anno di grazia”, dal momento che in greco il termine “grazia” non esiste, si riferisce ad un anno “da accogliere”.

Ma noi chi dobbiamo accogliere? Non un tempo, un anno, ma una Persona che è il nostro giubileo, per ciascuno e per tutti. Il giubileo Cristiano deve essere per forza eminentemente cristologico e cristocentrico, centrato sulla presenza e sulla persona di Cristo Gesù. È lui stesso che appone il suo sigillo definitivo quando afferma, in conclusione del suo discorso nella Sinagoga di Nazareth: “Oggi si è adempiuta questa scrittura, che voi avete udito con i vostri orecchi”. Si è adempiuta in lui ed accogliendo lui anche noi accogliamo il suo giubileo. La particolare prospettiva presentata dal Vangelo secondo Luca consente di radicare l’annuncio evangelico e la pratica di umanità di Gesù nell’opacità del quotidiano in cui gli umani vivono e in cui rischiano di naufragare (Lc 17,26-29).

Il termine “oggi” è uno di quelli cari a Luca ed è illuminante per noi il contesto in cui l’evangelista lo usa. Lo troviamo sempre per annunciare la salvezza di una o più persone per avere riconosciuto ed accolto il Signore Gesù nella propria vita.

Un monaco benedettino del secolo XII, Dom Pietro di Celle, poi Vescovo di Chartres, ha composto una preghiera, un invito a Gesù, che egli non presenta come il giudice severo del dies irae o come un re che concede un’amnistia o un indulto, ma, proprio come appare nel Vangelo di Luca: mite ed umile di cuore, venuto per servire e non per essere servito, attento prima di tutto ai poveri, ai miseri, a tutti i peccatori, per riportatori alla libertà dei Figli di Dio. È il Gesù che attrae tutti a se di Giovanni 12,32, quello che perdona i peccatori indipendentemente dal pentimento di Luca 23,32, quello che ristora gli affaticati e gli oppressi di Matteo 11,28.

Ecco la preghiera:

Vieni, Gesù, nelle fasce, nelle lacrime,
Nell’umiltà, non nella grandezza.
Vieni nella mangiatoia,
non sulle nubi del cielo.
Vieni tra le braccia di tua madre,
non sul trono della tua maestà.
Vieni sull’asina,
non sul destriero,
Non sui cherubini.
Verso di noi vieni,
non contro di noi.
Vieni per salvare,
non per giudicare.
Vieni per visitarci nella pace,
non per condannarci nel furore.
Se vieni così, Gesù,
invece di fuggire da te,
Noi correremo verso di te.

Nella Bolla di indizione del prossimo Giubileo, Spes non confundit, Papa Francesco, pone il cammino giubilare sotto il segno della speranza Cristiana: «Giustificati dunque per fede, noi siamo in pace con Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo. Per mezzo di lui abbiamo anche, mediante la fede, l’accesso a questa grazia nella quale ci troviamo e ci vantiamo, saldi nella speranza della gloria di Dio… “La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato (Rm 5,1-2. 5)…” La speranza, infatti, nasce dall’amore e si fonda sull’amore che scaturisce dal Cuore di Gesù trafitto sulla croce: “Se infatti, quand’eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo, molto più ora che siamo riconciliati, saremo salvati mediante la sua vita” (Rm 5,10). Possa la forza della speranza riempire il nostro presente, nell’attesa fiduciosa del ritorno del Signore Gesù Cristo, al quale va la lode e la gloria ora e per i secoli futuri».

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Foto di copertina: Giovanni di Paolo di Grazia, Paradiso, 1445, tempera e oro su tela trasferita da legno, 46,80×40,80 cm; superficie dipinta 44,50×38,40 cm, Metropolitan Museum of Art, New York.
Insieme ad una scena della Creazione e della Cacciata dal Paradiso, questo dipinto costituiva la predella di una pala d’altare precedentemente nella chiesa di San Domenico in Siena (oggi nella Galleria degli Uffizi di Firenze). Dipinti nel 1445, i due dipinti sono tra le opere più belle dell’artista. Gruppi di santi e angeli si abbracciano in un ricco giardino del Paradiso, simile ad un arazzo.
Giovanni di Paolo fu molto ispirato dai dipinti di Fra Angelico che vide a Firenze, ma rifiutò il razionalismo prospettico dell’arte fiorentina in favore di un effetto visionario di squisita intensità.


Venti domande e risposte sul Giubileo Ordinario 2025, sul Pellegrinaggio Costantiniano Internazionale e sul solenne Pontificale in onore di San Giorgio Martire, nell’Anno Santo 2025 per i Cavalieri, le Dame, i Postulanti e gli Amici del Sacro Militare Ordine Costantiniano di San Giorgio.

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