Domenica 21 aprile 2024, è stato pubblicato il Podcast Discernere la cultura attuale [QUI].
Ma quando il Figlio dell’uomo verrà, troverà la fede sulla terra? (Luca 18, 8b).
La verità cristiana, pur essendo radicata su realtà divine e, pertanto, al di sopra ed al di là del tempo e dello spazio, una volta calata nella realtà si trova esposta al processo travagliato ed affascinante della storia umana. Infatti al centro di questa verità c’è la rivelazione di un Dio che si presenta come Dio-con noi, che si immerge nell’umano per divinizzarlo, che ha sangue e carne, che gioisce e soffre nella sua storia personale all’interno della storia universale: Gesù, il Cristo.
Questo vale soltanto all’interno degli orizzonti culturali e storici in cui si incarna? Potrebbe non validassi fuori del proprio tempo e della propria cultura?
In realtà esso sembra, da sempre, conformarsi alle diverse e differenti culture, integrandone gli aspetti fondamentali, ma anche proponendo una critica profetica su quelle realtà che minacciano la dignità dell’uomo e la sua legittima aspirazione a vivere in una società giusta, pacifica e fraterna. E allora, come dirimere questa apparentemente irriducibile contrapposizione?
Innanzi tutto mediante una nuova lettura teologico-pastorale della realtà in cui viviamo. I cambiamenti culturali degli ultimi decenni mettono in crisi molti dei nostri modelli di cristianesimo. Spentasi l’euforia del mondo moderno, è tramontato il tempo di una cristianità nella quale, tra la fede e l’ambiente circostante c’era una integrazione anche se su basi estremamente ambigue spesso fondate su ignoranza, privilegio, quando non, addirittura, prevaricazione, si è fatta strada una nuova fase culturale che, almeno in Occidente, si configura come un contesto paradossale: post-cristiano e al contempo post-ateo.
Il teologo Paul Tillich si domanda: “Il messaggio cristiano è ancora rilevante per le persone del nostro tempo? E se non lo è, qual è la causa? E ciò si riflette sul messaggio del cristianesimo stesso?” Ma già l’evangelista Luca, profeticamente, si poneva, anzi, poneva in bocca a Gesù stesso, l’identica domanda: “Ma quando il Figlio dell’uomo verrà, troverà la fede sulla terra?” (18, 8b).
Quando ci si riferisce all’epoca moderna, subito si pensa allo straordinario sviluppo delle scienze, al progresso in diversi ambiti della vita e della società e all’apparente trionfo illuministico della ragione umana. Non c’è più Dio come centro della storia, ma l’uomo, capace di trasformare e manipolare la storia attraverso la potenza della ragione e l’efficienza del progresso tecnico-scientifico.
Appare sempre più evidente, però, che l’euforia del progetto della modernità con le promesse quasi di onnipotenza del sapere e delle sue realizzazioni tecniche era sicuramente mal riposta. Le immani tragedie e gli orrori del Novecento hanno svelato ampiamente che la scienza, il progresso, la tecnica e i grandi ideali politici hanno mostrato il loro lato ambiguo producendo anche eventi devastanti nel momento in cui hanno generato i mostri dei regimi apertamente o subdolamente totalitari.
L’epoca moderna ha generato, e il parto non è stato certamente eutocico, la postmodernità: tempo della stanchezza, della sfiducia, del relativismo e della disillusione. Così, in una società che il sociologo Zygmunt Bauman ha definito «liquida», l’uomo postmoderno vive fumose identità, all’insegna del relativo, valori senza assiologia definita, stili e pratiche inconsistenti, qualunquistiche, demagogiche, orientate solo da occhiuti e subdoli mezzi di comunicazione di massa. E tutto questo che riflesso ha sulla fede, in generale, e su quella cristiana in particolare?
Il nostro tempo, proprio per la sua configurazione postmoderna, non è segnato da un ateismo polemico e militante. Tuttavia, una profonda crisi, che assume più i contorni della dimenticanza, segna la nostra fede, l’appartenenza ad una comunità di credenti, i simboli del cristianesimo e lo stesso contenuto del suo messaggio. Più che crisi della fede è una “crisi di Dio”, quella che si manifesta oggi per lo più come abbandono del pensiero stesso di Dio, come irrilevante e, alla fine, inconsistente e relativo, come tutto il resto. Dio non è morto, semplicemente non interessa più, non si pone più come domanda alla base di ogni antropologia. Per usare una metafora, sembra che Dio sia stato messo ormai ai confini della vita e della società, relegato ai margini delle esistenze e della coscienza.
Ma, paradossalmente, e la nostra è un’era di paradossi, proprio questa situazione potrebbe rappresentare un’opportunità da cogliere! Noi uomini avevamo posto dio, qualunque dio, in un oltre ultramondano, nei cieli, distante quando non indifferente. Ma il nostro Dio non si è mai veramente allontanato da noi e per mantenersi vicino ha spostato i confini all’interno di noi stessi e si è fermato lì, ai confini della nostra libertà e li attende, in palpitante attesa, il nostro sì! Ma quando la libertà e la verità delle Creature è violata dalla povertà, dall’esclusione, dallo scarto, dalla schiavitù, dallo sfruttamento, dalla morte, allora il nostro Dio valica, in un impeto di misericordia che gli “sommuove l’utero” come al momento del parto primigenio delle sue Creature, dei confini che non ci sono più (cfr. Lc 6, 36). Allora egli si rivela il Dio-con-noi, il Padre che cerca, con lo struggimento di un Amore ineffabile, perché ontologicamente strutturante la sua stessa Persona, adoratori in spirito e verità (cfr. Gv 4, 23 – 24). Un Dio che muore fuori dalle mura, i confini, della città (cfr. Mt 27, 32), ma che attraversa il confine della morte e la illumina di vita nuova. Egli, con la sua misericordia e compassione, annuncia che varcare il confine è sempre possibile “Ecco io sono alla porta (il confine) e busso; se qualcuno ode la mia voce ed apre la porta, io entrerò da lui, e cenerò con lui ed egli con me” (cfr. Ap 3, 20 – 21).
Anche come comunità dei credenti in Cristo Gesù, raccogliendo l’invito che dall’inizio del suo pontificato Papa Francesco ci ha rivolto (cfr. Evangelii gaudium 20-24), dobbiamo scoprire la sfida insita nei nostri confini e stare sulla soglia, per uscire, come le vergini savie di Matteo 25, 1-13, dalle nostre comodità e sicurezze e avviare un processo di trasformazione della nostra mentalità.
Il primo compito di chi intende «abitare le frontiere» del nostro tempo, senza moralismi o rigidità, è quello di procedere a un nuovo discernimento della cultura. Questo implica anche un “giudizio” sulle sue visioni antropologiche riduttive o alienanti che, sotto varie forme, schiavizza la persona umana e ferisce la sua dignità e la sua libertà e, per stare in ambito teologico, ne offusca sempre più irrimediabilmente l’immagine e la somiglianza con il Creatore (cfr. Gn 1, 26-27).
Urge, quindi, un approccio disponibile, gentile, aperto e rispettoso ma, al contempo, capace di creare una nuova cultura, di allargare gli orizzonti della vita, di mettere sotto accusa ciò che degrada l’uomo e i popoli, di inaugurare nuove forme e nuovi stili operativi di fraternità e comunione, cercando di scoprire l’opera silenziosa dello Spirito, la segreta presenza del mistero divino. Quello attuale è un tempo segnato da una visione materialista della vita. La secolarizzazione si è spostata da un livello puramente sociologico ed esteriore, al più profondo livello dell’interiorità dell’uomo, della sua visione generale e dei suoi stili di vita cambiando le condizioni interiori che consentono o ostacolano l’accesso alla fede. Il fenomeno, cioè, riguarda la “immaginazione spirituale”, restringendo il desiderio dell’uomo, rimpicciolendo le speranze che vanno oltre l’immediato, condizionando il nostro immaginario interiore e quindi la nostra interpretazione della vita. Si preferisce semplicemente abitare il mondo, senza domande, assuefatti alla dittatura del consumismo e della fretta, incapaci di spazi di silenzio e di vere relazioni personali e, in tale situazione, per Dio e per la fede non c’è posto.
Questa condizione pone al cristianesimo alcune sfide che andrebbero affrontate sia sul piano più strettamente teologico sia su quello ecclesiale. Anzitutto, occorre reinvestire tutte le nostre energie su un rinnovato annuncio del vangelo che riproponga, in modo nuovo, la vicinanza/prossimità di Dio svelataci in Gesù Cristo, come promessa di felicità per la vita umana e compimento della storia. Si tratta di uno sforzo corale per riproporre la fede stessa non come un contenuto di verità astratte, un insieme di informazioni da imparare o di comandamenti da osservare, ma come l’evento decisivo di un incontro personale con Dio. Ciò implica un rinnovamento dei linguaggi che liberi l’evangelizzazione dal rischio di ridursi a semplice trasmissione intellettuale/conoscitiva di un contenuto, per farla diventare fondativa, per «iniziare» alla fede e a relazioni umane fondate sull’amore.
Annunciare sì, ma quale Dio? Quello che si è rivelato in Gesù, Dio della compassione e della tenerezza, della libertà che non si sostituisce all’uomo e non pretende di governare tutto dall’alto, amico dell’uomo.
Il tema dell’immagine di Dio è altresì legato a quello dell’immagine, della forma e dello stile di Chiesa. Essa, vincendo la preoccupazione della rilevanza sociale e politica, dovrà pensare se stessa come comunità in cammino in mezzo ai travagli della vita, pellegrina, che nella storia accompagna i suoi membri alla scoperta del Regno e della capacità di promuovere anche uno stile di vita alternativo. Allo stesso tempo, un cristianesimo critico verso certi meccanismi di schiavitù diventa anche capace di compassione; è un cristianesimo che si preoccupa di promuovere un pieno umanesimo nella direzione della giustizia evangelica contro ogni economia che esclude, e testimonia nelle opere prima ancora che nelle parole, la compassione di Gesù. Egli, testimone dell’amore di Dio e della certezza del Regno, si coinvolge con viscere di misericordia nella vita delle persone e si impegna a curarne le ferite e guarirle. Dovrebbe essere questa una fondamentale attività della Chiesa: preoccuparsi della sofferenza delle persone e lavorare alla loro felicità, essere cioè una «religione sensibile al dolore» o – per riprendere Papa Francesco – «un ospedale da campo».
Indice dei podcast trasmessi [QUI]