Se Francesco d’Assisi passava le notti intere ripetendo con la parola e nel cuore: “Dio mio e mio tutto”, Madre Maria Cecilia Baij, qualche secolo dopo, si sentirà dire dal suo “Amante”: “Tu tutta mia, io tutto tuo”. Era il 17 febbraio 1729 quando iniziò a scrivere i Colloqui, dove si trova questa richiesta radicale d’amore.
Sabato 29 gennaio 2022 alle ore 12.00, nella Sala delle Biblioteche del Palazzo dei Papi in Viterbo, era stata aperta dall’allora Vescovo di Viterbo, Mons. Lino Fumagalli, la fase diocesana del Processo di Beatificazione e Canonizzazione della Serva di Dio Madre Maria Cecilia Baij (1694-1766), monaca professa Benedettina, per venti anni Badessa del monastero delle Benedettine di San Pietro in Montefiascone, una delle più importanti mistiche del XVIII secolo.
Nell’occasione Mons. Fumagalli ha pronunciato nell’occasione, da cui seguono alcuni estratti:
«Una sessione solenne questa prima che dà inizio al processo di canonizzazione e che testimonia la serietà della Chiesa nell’affrontare questo percorso. Io come Vescovo sono contento, insieme con tutta la comunità diocesana in particolare con le monache del monastero di San Pietro di Montefiascone, perché questo processo ci aiuterà a conoscere meglio questa monaca benedettina che ha segnato sia la vita del monastero, sia la vita di Montefiascone; ci aiuterà a conoscere gli scritti, queste allocuzioni spirituali. Nel processo dovremo anche sottoporre ad un esperto di mistica quanto la Baij ci dice, ma indubbiamente i suoi scritti ci aiuteranno non solo a conoscere la spiritualità della monaca, ma anche a crescere nella nostra vita di fede. Quindi, è un dono e una grazia che noi riceviamo, ecco viviamo la così, aprendoci sempre alla gratitudine ma anche all’imitazioni delle virtù della Serva di Dio».
«Abbiamo svuotato il monastero di Montefiascone, ma ho preferito questa sede per significare che è un processo in cui tutta la diocesi è coinvolta, non è una questione interna del monastero, ecco il segno, e vorrei che questo segno portassi frutti abbondanti nella lettura delle opere, quelle pubblicate; il processo può anche esser l’opportunità per completare la pubblicazione con il coinvolgimento un po’ di tutti e soprattutto nell’assimilazione alle virtù fondamentali che Madre Cecilia Baij testimonia; i santi sono intercessori e modelli di vita. Intercessori, ci rivolgiamo a loro chiedendo protezione, aiuto e sostegno e che ci rappresentino costantemente presso Dio; modelli di vita attuali, concreti, di oggi. Ecco questo ci aiuterà a vivere meglio sia come singoli sia come Chiesa soprattutto in questo grande processo di evangelizzazione che è fondamentale, Papa Francesco ce lo ricorda per fare sì che la Chiesa del terzo millennio possa essere credibile e segno della presenza del Signore».
«Bisogna sentirsi amati e comportarsi da fratelli. Come insegnano i santi. Bisogna avere amore per le persone e la condivisione. Con tutti, soprattutto i poveri».
Domenica 22 settembre 2024 alle ore 16.00, nel monastero delle Benedettine di San Pietro delle Benedettine di via Garibaldi a Montefiascone, il Vescovo di Viterbo, Mons. Orazio Francesco Piazza, ha proceduto alla chiusura dell’Inchiesta Diocesano, alla presenza di Padre Pierdomenico Volpi, S.O. Cist., Cappellano di Merito con Placca d’Argento, monaco dell’Abbazia di Casamari in Veroli, Postulatore Generale dell’Ordine Cistercense.
Su invito della Priora del monastero di San Pietro, una rappresentanza della Delegazione della Tuscia e Sabina del Sacro Militare Ordine Costantiniano di San Giorgio, guidata dal Delegato Nob. Avv. Roberto Saccarello, Cavaliere Gran Croce de Jure Sanguinis con Placca d’Oro, ha preso parte nella chiesa monastica, ai Vespri solenni presieduti dal Vescovo diocesano.
Hanno presenziato Mons. Fabio Fabene, Arcivescovo titolare di Montefiascone, Segretario del Dicastero delle Cause dei Santi; Dom Gualtiero Rosa, O.S.B. Oliv., Abate ordinario di Monte Oliveto; con la Comunità monastica, gli officiali della Curia vescovile di Viterbo, le autorità e numeri fedeli, provenienti da molte parti d’Italia.
Al termine del sacro rito si è tenuto un ricevimento, nel corso del quale il Delegato per la Tuscia e Sabina ha salutato i prelati e le autorità presenti, illustrando loro le attività dell’Ordine Costantiniano.
Occorre ricordare come da diversi anni la Delegazione della Tuscia e Sabina sostiene il monastero delle Benedettine di San Pietro in Montefiascone con fornitura di generi alimentari e beni di prima necessità.
Il Delegato per la Tuscia e Sabina ha inoltre provveduto il giorno successivo ad accompagnare Padre Pierdomenico Volpi alla Congregazione delle Cause dei Santi in Vaticano per la consegna della ampia documentazione dell’Inchiesta Diocesana.
Cecilia Felicita Baij – come ebbe nome il giorno del battesimo – nacque a Montefiascone il 4 gennaio 1694 da Carlo, originario di Milano, falegname di professione, e dalla nobildonna viterbese Clemenza Antonini, originaria di una famiglia prestigiosa che aveva però perso i suoi beni.
Le pagine della autobiografia ci fanno conoscere una bambina pronta, vivace, ma fin dai primi anni irresistibilmente attratta dalla preghiera: “Ricordo benissimo che di cinque anni, nel tornare a scuola, in qualche stretto di strada dove non potevo essere veduta, dicevo al Signore che mi facesse tutta sua, che mi desse il suo amore, e quivi sfogavo i miei affetti e per qualche tempo mi trattenevo”.
Dopo un breve periodo sentì – ce ne racconta la stessa Madre Maria Cecilia Baij, OSB – il fascino di una compagna leggera e l’attrattiva degli affetti umani, pur senza giungere mai a compiere il male, decise definitivamente di darsi a Dio. Contro il parere della madre, il 16 maggio 1711 entrò come educanda nel monastero della Visitazione della Beata Vergine Maria di Viterbo, detto della Duchessa, dell’Ordine Cistercense. Non vi si trovò a suo agio, a causa della poca osservanza delle regole religiose, ed espresse dunque il desiderio di trasferirsi nel monastero di Montefiascone, ma i suoi parenti erano sfavorevoli poiché lo ritenevano poco prestigioso. Lasciò il monastero viterbese nel 1712 e il 12 aprile entrò nel monastero benedettino di San Pietro a Montefiascone, con l’aiuto di Padre Egidio Bazzarri, che più avanti sarà anche suo confessore e direttore spirituale. Il 15 agosto 1713 ricevette l’abito dalle mani dell’Abate Luca Corneli, padrino di battesimo del fratello Francesco, assumendo il nome di Maria Cecilia.
Dopo essere stata Maestra delle Novizie e Vicaria, fu eletta Badessa il 10 luglio 1743, e tenne la carica quasi ininterrottamente per un ventennio: fu rieletta Badessa ancora nel 1749, nel 1752, nel 1756, nel 1759 e nel 1765 a testimonianza della considerazione acquisita tra le consorelle e da parte dell’autorità ecclesiastica.
Attraversò, come tutti i mistici, ogni sorta di prove intime ed esterne, dalle persecuzioni sottili delle monache all’asprezza dei confessori (tra i quali spicca San Leonardo da Portomaurizio), che ora la trattavano da illusa, ora la rassicuravano da parte di Dio. E venne sempre fuori con una umiltà e un distacco di sé che sono da soli una buona raccomandazione nei confronti della sincerità delle sue opere. Intanto riportava la pace fra le dissenzienti, elevava il tono spirituale della Comunità, si offriva di espiare per quelli che la offendevano.
Ammalatasi nel 1765, morì nell’ufficio del suo mandato di Badessa a 71 anni, il 6 gennaio 1766.
04 La stanza di Madre Maria Cecilia Baij nel monastero di Montefiascone è un luogo particolarmente emozionante e conservato in maniera impeccabile dalle consorelle.
Durante la sua vita, il Cristo sofferente volle associarla alla Sua Passione e a questo scopo, ne purificò il cuore con dure prove, rendendola degna di ricevere grazie e favori eccezionali.
Gli importanti scritti che la Serva di Dio ci ha lasciati, ricevuti per illuminazione divina, fanno di lei un’apostola e una messaggera dell’amore di Dio, nonché una grande mistica del secolo XVIII. Scrisse in particolare tre opere considerate pietre miliari della storia della mistica di tutti i tempi: Vita interna di Gesù Cristo, Vita interna di San Giuseppe e Vita interna di San Giovanni Battista, che sono il frutto di locuzioni interiori che la pia monaca riceveva e fedelmente scriveva in obbedienza al confessore.
La prima edizione della Vita di San Giuseppe uscì nel 1921, trascritta e presentata da Don Pietro Bergamaschi, allora Direttore Spirituale nel Seminario Regionale di Montefiascone e attento studioso delle opere della Serva di Dio. Incoraggiato da eminenti personalità del tempo – da Papa Benedetto XV che gli fornì i mezzi per la pubblicazione e a cui dedicò il volume, all’Abate ordinario di San Paolo fuori le mura, il futuro Cardinale Alfredo Ildefonso Schuster (elevato in seguito agli onori degli altari) – Mons. Bergamaschi iniziò nel 1916 lo spoglio dei manoscritti, ancor oggi conservati nell’Archivio del monastero dove la Serva di Dio fu Badessa per quasi un ventennio. E da tale assidua fatica che uscirono appunto Vita interna di Gesù Cristo, Vita interna di San Giuseppe, Vita interna di San Giovanni Battista ed infine la Vita della Serva di Dio Donna Maria Cecilia Baij. Mons. Bergamaschi morì prima di poter pubblicare Colloqui tra la Serva di Dio e Gesù.
Oltre ai suoi scritti ormai per gran parte noti perché dati alle stampe o utilizzati dai suoi biografi, la Serva di Dio Maria Cecilia Baij ha lasciato un enorme carteggio oltre a poesie, preghiere e altri brevi scritti che sono conservati presso il monastero di San Pietro a Montefiascone. Le sole lettere sono oltre 2.000 e il Dipartimento di Storia e Cultura del Testo e del Documento dell’Università della Tuscia, negli anni 2007-2010, ha provveduto a completare un progetto di catalogazione di tutto questo materiale inedito e riprodurlo in digitale.
Il monastero delle Benedettine di San Pietro in Montefiacone, anticamente intitolato a Santa Bibiana, ha origini antichissime. Il suo attuale nome potrebbe derivare dal primitivo cenobio benedettino maschile di San Pietro, situato in prossimità del lago di Bolsena e documentato a Montefiascone nell’anno 852. I Benedettini, giunti in città durante il periodo delle invasioni barbariche che seguirono la caduta dell’Impero Romano, dimorarono, oltre che in San Pietro, anche presso i cenobi di San Pancrazio e di San Simeone.
Ricostruire le vicende delle origini del monastero delle monache benedettine è cosa assai ardua, in quanto le varie irruzioni dei Goti e dei Vandali e l’incendio dell’archivio del monastero, avvenuto agli inizi del Seicento, hanno causato la perdita di preziosi documenti. Le strutture murarie e architettoniche della costruzione monastica, nonché il salone, il piano terra e il primo piano, attestano l’antichità della costruzione.
Durante il XVII secolo l’intero complesso venne interessato da significativi lavori di risistemazione. Nel 1652 venne eretta la farmacia a servizio dell’intera città e una grande ristrutturazione interessò tutto lo stabile nel decennio 1671-1681. Altre misure, volte a sottrarre le Benedettine da quella miseria spirituale e materiale in cui versavano, verranno adottate dal Cardinale Gregorio Barbarigo, Vescovo di Montefiascone, con i decreti della visita del 1688.
Nel 1719 le monache decisero di far costruire il nuovo coro e la volta della chiesa, che venne interamente risistemata e dotata di tre nuovi altari in stucco.
Il campanile venne invece restaurato nel 1752. In cima sono poste quattro campane: quella di San Pietro risale al 1301 e venne fusa da un certo Matteo da Viterbo, la seconda è dedicata a Santa Scolastica, la terza, detta Bibianella è del 1829, l’ultima, dedicata a San Benedetto, venne fusa dal fonditore viterbese Luigi Belli nel 1830.
Nel 1810 le Benedettine, che nel frattempo avevano abbracciato la vita comune (1802), furono costrette dal governo Bonaparte ad abbandonare il monastero. Cinque anni dopo le religiose ne ripresero il possesso, ma nel 1870 il nuovo Stato italiano confiscò l’intero complesso che, messo all’asta nel 1905, venne riacquistato dalle monache stesse.
Nel 1944 il monastero ottenne l’autonomia giuridica, che di fatto fu decisiva per il decollo della scuola, nonostante i disagi provocati dalla Seconda Guerra Mondiale.
Le forme attuali del monastero si devono ai lavori intrapresi in età rinascimentale e proseguiti nei secoli successivi, tuttavia si conservano ancora delle parti della primitiva struttura in alcuni ambienti, oggi adibiti a cantine e autorimessa, che si trovano nel piano seminterrato, testimonianza dell’antica origine medievale del monastero.
La peculiarità di questi vani è costituita dalla presenza di robusti archi-diaframma che, emergendo dalle pareti, o da pilastri ad esse addossati, sorreggono il soffitto ligneo, per altro molto risarcito e in gran parte sostituito. La tipologia di questi sostegni li accomuna a quelli che, a Montefiascone, scandiscono i saloni della Rocca Papale e gli ambienti dell’ala settentrionale dell’ex convento degli eremitani di Sant’Agostino. L’utilizzo degli archi a tutto sesto come sostegno della copertura dei vani risponde a un sistema molto diffuso nella architettura sia religiosa, che civile viterbese, a partire dalla seconda metà del XIII secolo. Archi a sesto acuto ricorrono, ad esempio, nella navata della chiesa di San Francesco, possenti archi a pieno centro si trovano nei sotterranei e nel salone intermedio del Palazzo Papale, nella struttura sottostante la Loggia della Morte, nei locali dell’Ospedale della Domus Dei, o anche nelle sale, oggi occupate dal Museo Civico, un tempo ambienti del monastero di Santa Maria della Verità.
L’uso dell’arco diaframma, come elemento strutturale per reggere coperture a tetto, si diffonde soprattutto ad opera dei monaci Cistercensi. Nell’area viterbese il centro di irradiazione di questo e di altri modelli fu l’abbazia di San Martino al Cimino che, insieme ai vari altri nuclei di insediamento cistercense, ebbe un ruolo fondamentale nel programma di politica territoriale, svolto da Papa Innocenzo III. Gli ambienti del piano seminterrato del monastero benedettino di Montefiascone partecipano a questa diffusa tipologia, suggerendo così una loro collocazione cronologica all’interno del XIV secolo.
Al pianterreno si trova il Comunichino che, certamente, è la parte più antica del piano sul quale si sviluppa l’attuale complesso monastico. Questo spazio era collegato con la chiesa esterna attraverso una grata in ferro tramite la quale le monache di clausura potevano assistere alla Messa. Un’altra apertura simile, ma di dimensioni minori, permetteva loro di confessarsi e comunicarsi. Da qui il termine Comunichino per indicare questo luogo.
È difficile individuarne l’originaria funzione anche a causa della scarsità di notizie riguardanti il monastero nei secoli precedenti. Si può tuttavia ipotizzare, data la natura dei soggetti affrescati, che le pareti fossero parti della primitiva chiesa oppure di un piccolo oratorio utilizzato dalla comunità monastica.
L’antica struttura fu poi modificata e inglobata nelle nuove costruzioni, realizzate a partire dalla seconda metà del XV secolo. A questo periodo risale, probabilmente, anche lo spazio antistante il Comunichino come indica lo stile rinascimentale degli elementi scolpiti che lo caratterizzano, quali i peducci che ne sostengono le crociere e le chiavi di volta.