Convegno della Delegazione Puglie e Basilicata a San Severo su “Percorsi Possibili di Pace in Medio Oriente”

La Delegazione delle Puglie e Basilicata del Sacro Militare Ordine Costantiniano di San Giorgio organizza, con il patrocinio della Regione Puglia, della Provincia di Foggia, della Città di San Severo e dell’Ordine degli Avvocati di Foggia, per venerdì 15 novembre 2024 alle ore 17.30 presso la Chiesa di Santa Maria della Pietà in San Severo un Convegno sul tema "La Tua pace sarebbe come un fiume" (Is 48,18). Percorsi possibile di pace in Medio Oriente. I lavori verranno preceduti alle ore 16.30 dalla solenne Concelebrazione Eucaristica presieduta dal Nunzio Apostolico S.E.R. Mons. Luigi Pezzuto, Cappellano Gran Croce di Merito, Arcivescovo titolare di Torre di Proconsolare.
Gerusalemme tre religioni

Programma del Convegno
“La tua pace sarebbe come un fiume” (Is 48,18)
Percorsi Possibili di Pace in Medio Oriente
San Severo, 15 novembre 2024

Saluti istituzionali

  • Prof. Lidya Colangelo, Sindaco di San Severo
  • Rocco Pisone, Priore dell’Arciconfraternita della Orazione e Morte di Nostro Signore Gesù Cristo
  • Avv. Gianluca Ursitti, Presidente dell’Ordine degli Avvocati di Foggia
  • S.E. il Marchese Don Pierluigi Sanfelice di Bagnoli, Cavaliere Gran Croce di Giustizia, Luogotenente per l’Italia Meridionale Peninsulare della Real Commissione per l’Italia del Sacro Militare Ordine Costantiniano di San Giorgio

Relatori

  • Prof. Aldo Ligustro, Ordinario di Diritto Internazionale presso l’Università degli Studi di Foggia
  • S.E.R. Mons. Luigi Pezzuto, Cappellano Gran Croce di Merito, Arcivescovo titolare di Torre di Proconsolare, Nunzio Apostolico
  • Dott. Yehonatan Elitzur, di Mevaseret Zyyon, Scuola di Lipta (Israel)
  • Dott. Rony Tabash, Università di Betlemme (Palestina)

Moderatore

  • Mons. Giovanni Pistillo, Cappellano di Merito con Placca d’Argento, Cappellano Capo della Delegazione delle Puglie e Basilicata

Conclusioni

  • Avv. Dario de Letteriis, Cavaliere Gran Croce de Jure Sanguinis, Delegato per le Puglie e Basilicata del Sacro Militare Ordine Costantiniano di San Giorgio

L’evento ha ottenuto l’accreditamento ai fini dell’aggiornamento professionale dell’Ordine degli Avvocati di Foggia.

La retroscena
Il difficile percorso della pace
in Medio Oriente

Da un lato il Medio Oriente è alla ricerca della tregua e della pace, dall’altro i fronti di guerra aumentano. La Striscia di Gaza è un campo di battaglia dove non si distinguono vincitori e vinti, anzi, dove tutti paiono perdere: Hamas, i Palestinesi e pure Israele. La pace in Medio Oriente è ancora possibile?

Foreign Affairs, la più autorevole rivista di geopolitica statunitense, ha proposto tre scenari per una pace in Medio Oriente. Sono tre ipotesi molto diverse fra di loro, per una possibile soluzione della tragedia mediorientale.

1. In primo luogo c’è l’ipotesi dei due Stati, Israele e Palestina, che risale alla prima ipotesi di Partizione durante il “mandato” (protettorato) britannico nel 1937. Fu adottata nel 1947 dalle Nazioni Unite (Risoluzione 181) e da allora è sempre stata accettata e portata avanti dalla diplomazia statunitense. Ha enormi ostacoli da superare, e per diventare realistica forse richiederebbe un cambio di strategia proprio da parte degli USA.
Gli accordi di Oslo, ufficialmente Dichiarazione dei Principi riguardanti progetti di auto-governo ad interim o Dichiarazione di Principi (1995), cercò di delineare un percorso concreto verso due Stati, inclusa la restituzione del 97% del territorio di Cisgiordania ai Palestinesi, più la parte orientale di Gerusalemme come capitale del loro Stato.
A far marcire la situazione fino all’orrore del 7 ottobre 2023 hanno contribuito diverse evoluzioni. Benjamin Netanyahu ha aiutato Hamas a consolidare il suo controllo su Gaza in aperto contrasto con l’Autorità Palestinese in mano a Fatah in Cisgiordania, perché un assetto politico bicefalo e conflittuale allontanava l’ipotesi dei due Stati. Ora però lo status quo è diventato chiaramente insostenibile, sia dal punto di vista umanitario che sotto il profilo politico e strategico. Netanyahu ha in mente un’occupazione militare di Gaza a tempo indeterminato da parte delle forze armate israeliane. La sua è una prospettiva di «guerra infinita» come quella che venne combattuta contro Hezbollah nel Sud del Libano per 18 anni, senza esito. E oggi questo avverrebbe in una situazione di isolamento internazionale di Israele molto più grave che in passato. Hamas non ha altro da proporre al popolo palestinese che lo scenario simmetrico: guerre, distruzioni, atrocità e sofferenze a oltranza.

2. Un’alternativa completamente diversa parte dalla constatazione, amara ma realistica, che ai due Stati non crede nessuno dei protagonisti. Di conseguenza, gli USA dovrebbero ripiegare sulla scelta di far rispettare la legalità, e non è poco.
Il punto di partenza di questo secondo scenario è più cinico o più realistico del primo: è inutile che gli USA, o qualsiasi altro soggetto esterno, si affanni a inseguire la soluzione dei due Stati, finché i due protagonisti sul terreno la rifiutano.
Una conseguenza della carneficina perpetrata da Hamas il 7 ottobre 2023 è che l’ipotesi di uno Stato Palestinese viene rifiutata dalla maggioranza degli israeliani.
Una conseguenza della strage di vittime civili in corso a Gaza è che i Palestinesi oggi sono più favorevoli di prima ad Hamas il cui fine conclamato è la distruzione d’Israele.
In questa situazione, gli USA devono ripiegare su un obiettivo più limitato: usare gli strumenti a disposizione per far rispettare la legalità, ridurre i danni e le sofferenze per i civili, limitare gli abusi contro i diritti umani. È un obiettivo circoscritto, e tuttavia assai ambizioso nelle circostanze attuali.
Partendo dall’assurdità d’inseguire il «miraggio» dei due Stati, anche questo scenario «minimalista», o ultra-realista, contempla il divorzio USA-Israele.

3. Un terzo scenario non riguarda tanto i contenuti degli accordi di pace. bensì la loro regìa: parte dall’idea che gli USA conteranno sempre meno (per scelta o per necessità), dunque esamina la possibilità che al loro posto subentrino degli attori regionali, magari guidati dall’Arabia Saudita.
Il punto di partenza: dobbiamo rassegnarci a vivere in un mondo post-USA. Vuoi perché gli USA imboccheranno un percorso verso l’isolazionismo, vuoi perché non avranno più i mezzi per esercitare l’influenza che ebbe in passato, o altri avranno acquisito una capacità d’interdizione e di destabilizzazione crescente contro una Pax Americana. Tutte queste ipotesi spingono a cercare altrove una soluzione per i problemi del Medio Oriente.
Cina, Russia, Europa non offrono prospettive migliori degli USA. La soluzione potrà maturare solo grazie ad attori locali: cominciando dai due Paesi più vicini al conflitto, cioè Egitto e Giordania; per poi includere altri Stati arabi come Qatar, Emirati, Arabia saudita; infine allargando il cerchio alla Turchia e forse perfino all’Iran.
Qualcosa si sta muovendo in questa direzione: la proliferazione di accordi di cooperazione regionale, con geometrie variabili che associano una parte degli Stati sopra menzionati, o anche tutti quanti sotto il cappello islamico.
Immaginare che sia il Medio Oriente a «curarsi da solo», può sembrare una fuga in avanti verso un ottimismo sconsiderato. Presuppone tante cose che non si possono dare per scontate. Per esempio, che l’Iran non abbia un interesse primario a distruggere anziché costruire degli equilibri pacifici, dal momento che la stabilizzazione aiuterebbe i progetti modernizzatori e laici dei sunniti moderati. Inoltre tutto ciò richiede che l’Arabia Saudita si faccia carico di un ruolo geopolitico molto più ambizioso e attivo che in passato.
Siamo quindi nel regno delle ipotesi. Il punto di partenza però, cioè l’impossibilità che siano gli USA a risolvere il disastro mediorientale, merita attenzione.

Quando taceranno le armi, chi ricostruirà la Striscia di Gaza? Chi si siederà al tavolo dei negoziati per Israeliani e Palestinesi e chi farà da garante? Chi disarmerà le frange più violente dell’una e dell’altra parte?

Il primo passo prevede la sostituzione delle attuali leadership israeliana e palestinese. Il secondo passo sono le elezioni o una qualche forma di consultazione popolare che legittimi i nuovi leader.

Poi la presenza a Gaza della comunità internazionale, stavolta con un ruolo di primo piano dei Paesi arabi, anche attraverso contingenti militari per il mantenimento della pace. Un calendario certo e ravvicinato per la fine dell’occupazione in Cisgiordania, con il ritorno entro i confini del 1967 di almeno 100mila coloni con la restituzione di terre in cambio di accordi sulla sicurezza e la nascita di un’entità statale palestinese.

Ma soprattutto uno sforzo tenace, incurante della violenza con cui tenteranno di boicottare gli accordi, per disarmare gli estremisti delle due popolazioni.

Sono i cardini dei piani allo studio nelle cancellerie occidentali per «il giorno dopo» la fine della guerra fra Israele e Hamas, con numerose opzioni possibili, vista l’imprevedibilità degli esiti sul campo e delle variabili che potrebbero impedire ancora una volta di risolvere questa «Guerra dei cent’anni».

Dopo anni nei quali ha ignorato i Palestinesi, la comunità internazionale vede nella tragedia della Striscia di Gaza l’occasione per Israeliani e Palestinesi per trovare nuovi leader e spianare la strada a quegli accordi di pace fino ad oggi tutti falliti. Benché una parte dei Palestinesi siano stati radicalizzati dalla vendetta israeliana oltre che dalle umiliazioni quotidiane dell’occupazione, molti altri hanno voltato le spalle a Hamas e alla guerra che non può vincere.

In Israele Benjamin Netanyahu è completamente screditato: prima se ne va e meglio è, constatava il settimanale britannico The Economist. Si parla di elezioni per il «giorno dopo».

Anche i Palestinesi hanno bisogno di una nuova leadership e per loro la realtà sul campo è ancora più aspra. In Cisgiordania l’Autorità Nazionale Palestinese è considerata corrotta, gerontocratica e collaborazionista di Israele. L’amministrazione congiunta di Gaza e della Cisgiordania renderebbe una nuova leadership un partner credibile per la pace: si tratterebbe di un governo palestinese di transizione fra la Cisgiordania e Gaza sotto l’egida di Egitto e Giordania e finanziato dalle monarchie del Golfo, in grado di costruire il consenso fra i Palestinesi e di intraprendere gesti di fiducia verso gli Israeliani prima di andare alle urne.

Certo, nella Striscia divenuta inabitabile non si potranno indire elezioni a breve termine. Ma con gli Accordi di Abramo, diversi Paesi hanno riconosciuto Israele, secondo una nuova visione del Medio Oriente basata sulla mobilità di persone e di merci e la prosperità piuttosto che sull’ideologia: la Striscia di Gaza verrebbe ricostruita con i fondi di Qatar, Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita. Quel che più conta, i contingenti di questi tre Paesi potrebbero farsi carico della sicurezza nella Striscia quando l’esercito israeliano si ritirerà: se volessero, potrebbero staccare la spina a Hamas in termini di finanziamenti e protezione ed investire tutti i capitali nella ricostruzione. La loro influenza, rimarcano diversi studiosi su Foreign Affairs, potrebbe fornire una solida copertura a un governo palestinese di ricostruzione.

Sin dalla firma del trattato di pace fra Egitto ed Israele (1979), sono state avanzate varie iniziative, sia da Israele che da altri, per promuovere il processo di pace in Medio Oriente. Questi sforzi hanno condotto infine alla convocazione della Conferenza di Pace di Madrid (Ottobre 1991), tenuta sotto gli auspici degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica, nella quale sono stati riuniti i rappresentanti di Israele, Siria, Libano, Giordania e Palestinesi. Le procedure formali sono state seguite da negoziati bilaterali fra le parti e da colloqui multilaterali su questioni di interesse regionale.

Gli accordi di Oslo (1995) sono falliti anche perché contenevano appena le premesse di scelte concrete da compiere sul terreno nell’arco di cinque anni sui vari capitoli dei confini, delle colonie nei Territori occupati, di Gerusalemme, degli accordi sulla sicurezza, del ritorno dei profughi: la vaghezza ha minato la fiducia nella possibilità di raggiungere un accordo.

Poiché Israeliani e Palestinesi hanno dimostrato di non farcela da soli nei fallimenti di tutti i tentativi che sono stati fatti tra il 1997 e il 2014, è assolutamente indispensabile il coinvolgimento della comunità internazionale: il processo di pace è fallito anche per l’assenza di un honest broker. Stavolta il mondo arabo può fare la differenza.

Non ci sono alternative alla pace

Quel che è certo è che il tempo stringe. Per quanto irto di ostacoli possa risultare il percorso di pace, l’alternativa è ancora più cupa: la fine della democrazia israeliana con l’escalation dell’apartheid in Cisgiordania e la continuazione della carneficina, secondo l’aberrazione della pulizia etnica nelle frange estremiste dei due popoli ed il coinvolgimento di chi fino ad oggi le ha armate.

Spes contra spem
Sperando contro ogni speranza

Le persone normali non hanno bisogno della guerra.

Nessuno vuole vedere la sua casa bombardata, la sua famiglia uccisa…

«La guerra piace ai politici che non la conoscono. Che votano perché l’Italia invada l’Afghanistan, senza essere in grado di individuarla sulla cartina. La guerra piace a chi ha interessi economici, che se ne sta ben distante dalle guerre. Chi invece la conosce si fa un’idea molto presto. Io che non sono tanto furbo ci ho messo qualche anno per capire che non importa se c’è un’altra guerra. Che sia contro il terrorismo, per la democrazia o i diritti umani. Ogni guerra ha una costante: il 90% delle vittime sono civili, persone che non hanno mai imbracciato un fucile. Che non sanno neanche perché gli arriva in testa una bomba. Le guerre vengono dichiarate dai ricchi e potenti, che poi ci mandano a morire i figli dei poveri» (Gino Strada, Festa della Scienza e Filosofia a Foligno, 26 aprile 2018).

Spes contra spem (la speranza contro la speranza)… «Qui contra spem in spem credidit, ut fieret pater multarum gentium, secundum quod dictum est: “Sic erit semen tuum” [Egli ebbe fede sperando contro ogni speranza e così divenne padre di molti popoli, come gli era stato detto: Così sarà la tua discendenza]» (San Paolo, Lettera ai Romani 4,18). Coltiviamo una fede incrollabile in un futuro migliore e non abbandoniamo la speranza, anche quando le circostanze concrete sono così avverse da indurre a credere, al contrario, alla perdita di ogni speranza.

Questa foto è il ritratto di tre ragazzi che seguono le religioni abramitiche: un ragazzo Ebreo, un ragazzo Musulmano e un ragazzo Cristiano che posano davanti al luogo sacro della Cupola della Roccia e del Muro del Pianto nel gennaio 2001 a Gerusalemme. La foto è stata scattata da Reza Deghati, filantropo, idealista, umanista, architetto, fotogiornalista iraniano naturalizzato francese, conosciuto soprattutto per i suoi lavori con la rivista statunitense National Geographic, alla ricerca della quintessenza della vita.

Reza è profondamente coinvolta nell’educazione delle generazioni future. Divide il suo tempo tra fotografia e programmi di formazione, tenendo conferenze, presentazioni e conducendo workshop su questioni globali, oltre ad essere professore in visita. Il suo lavoro umanitario e il suo fotogiornalismo sono stati riconosciuti da istituzioni e università internazionali. Per la sua dedizione alle cause umanitarie.

Ha spiegato la storia della foto dei tre ragazzi in un’intervista a cura di Sona Nasibova, pubblicato il 26 luglio 2022 da Nargis Magazine [QUI]: «La lunga strada alla ricerca dei tre Abramo. Molto vicino a noi è la terra, che ospita cristiani, musulmani ed ebrei. La terra che viene lacerata e che non può essere divisa da Israeliani e Palestinesi. Lì i bambini vengono spesso allevati nell’odio reciproco in nome della loro terra. Come raccontano le tradizioni più antiche, Abramo fu il precursore di tre religioni, padre di figli ormai pronti ad uccidersi a vicenda. Ho creato una storia su Abramo, la sua storia, i suoi vagabondaggi e la sua volontà. Come simbolo di pace ho voluto trovare tre figli di tre religioni: Abramo tra i Cristiani, Ibrahim tra i Musulmani e Avraham tra gli Ebrei. Per un mese intero ho cercato con grande difficoltà di trovare ragazzi con tali nomi, per riunirli. Le riunioni venivano costantemente rinviate: o a causa delle festività religiose, a volte a causa delle strade bloccate, poi a causa del rifiuto del padrone di casa di far entrare un bambino palestinese nel suo terrazzo. Sì, questa idea pacifica e idealistica, che ho cercato di mettere in pratica, ha dovuto lottare contro molti ostacoli prima che potesse diventare realtà. Un bel giorno, tre bambini che hanno ricordi condivisi, una patria comune e un padre comune, ma che sono separati gli uni dagli altri, potrebbero riunirsi e incontrarsi. Ibrahim, Avraham e Abramo; È tempo di una foto congiunta, abbiamo fatto rivivere il messaggio perduto di nostro Padre sul mondo. Tre figli di Abramo – un Ebreo, un Musulmano e un Cristiano – davanti alla Cupola della Roccia e al Muro del Pianto. Dovresti essere sempre persistente, se davvero ti sforzi di incarnare il simbolo del sogno di pace».

«Proprio là dove gli uomini, nel tentativo di evitare ogni sofferenza, cercano di sottrarsi a tutto ciò che potrebbe significare patimento, là dove vogliono risparmiarsi la fatica e il dolore della verità, dell’amore, del bene, scivolano in una vita vuota, nella quale forse non esiste quasi più il dolore, ma si ha tanto maggiormente l’oscura sensazione della mancanza di senso e della solitudine. Non è lo scansare la sofferenza, la fuga davanti al dolore, che guarisce l’uomo, ma la capacità di accettare la tribolazione e in essa di maturare, di trovare senso mediante l’unione con Cristo, che ha sofferto con infinito amore» (Papa Benedetto XVI – Spe salvi, 35).

«Mentre Dio porta avanti la sua creazione, e noi uomini siamo chiamati a collaborare alla sua opera, la guerra distrugge. Distrugge anche ciò che Dio ha creato di più bello: l’essere umano. La guerra stravolge tutto, anche il legame tra i fratelli. La guerra è folle, il suo piano di sviluppo è la distruzione: volersi sviluppare mediante la distruzione!» (Papa Francesco – Omelia della Santa Messa al Sacrario Militare di Redipuglia nel Centenario dell’inizio della Prima Guerra Mondiale, 13 settembre 2014).

Preghiamo per tutti coloro che vengono uccisi nelle guerre, per la stragrande maggioranza dei civili, indipendentemente dalla loro religione.

«Quale gioia, quando mi dissero:
“Andremo alla casa del Signore”.
E ora i nostri piedi si fermano
alle tue porte, Gerusalemme!
Gerusalemme è costruita
come città salda e compatta.
Là salgono insieme le tribù,
le tribù del Signore,
secondo la legge di Israele,
per lodare il nome del Signore.
Là sono posti i seggi del giudizio,
i seggi della casa di Davide.
Domandate pace per Gerusalemme:
sia pace a coloro che ti amano,
sia pace sulle tue mura,
sicurezza nei tuoi baluardi.
Per i miei fratelli e i miei amici
io dirò: “Su di te sia pace!”.
Per la casa del Signore nostro Dio,
chiederò per te il bene»
(Salmo 122).

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