Esercizi Spirituali in preparazione della Santa Pasqua della Delegazione Sicilia Occidentale in Palermo

Il 11 e 12 aprile 2025, Venerdì e Sabato della V Settimana di Quaresima, presso la chiesa di San Giorgio dei Genovesi in Palermo si sono svolti gli Esercizi Spirituali in preparazione della Santa Pasqua della Delegazione della Sicilia Occidentale del Sacro Militare Ordine Costantiniano di San Giorgio, guidati dal Cerimoniere Religioso della Delegazione, Don Davide Calantoni, Cappellano di Merito con Placca d’Argento, con una Meditazione, al quale ha fatto seguito la Conclusione del Delegato Nob. Prof. Salvatore Bordonali, Cavaliere Gran Croce di Giustizia, che ha sottolineato che «milizia non vuol dire un’astratta e distratta adesione ma disciplina di vita e una concreta adesione a valori ben precisi, come la famiglia e la Fede». Di seguito riportiamo i riassunti della Meditazione e della Conclusione. Al termine dei due giorni di meditazione spirituale quaresimale, dopo la Preghiera del Cavaliere Costantiniano, ha avuto luogo un piccolo momento per lo scambio degli auguri pasquali.
Bandiera

La Meditazione
in preparazione della Santa Pasqua
di Don Davide Calantoni

«Carissimi Cavalieri e Dame del Sacro Militare Ordine Costantiniano di San Giorgio. Siamo riuniti per prepararci alla Santa Pasqua e quest’anno è anche il Giubileo per tutta la Chiesa. Desidero ancora una volta richiamare un aspetto fondamentale per il Giubileo della Speranza, che come sapete stiamo vivendo. L’aspetto che desidero sottolineare, trova questo sintetico titolo: Giubileo è misericordia.

Questa consapevolezza affonda le sue radici già nell’Antico Testamento, quando in Isaia 49,15 troviamo scritto. “Può una madre dimenticarsi del proprio figlio?” Di solito no, non capita, “ma se anche questo accadesse, io non mi dimenticherò mai di te”.

Misericordia è una vecchia parola. Durante la sua lunga storia, ha acquisto un senso molto ricco. In greco, lingua del Nuovo Testamento, misericordia si dice éléos. Ogni volta che celebriamo la Santa Messa, all’inizio la preghiera Kyrie eleison, ci lega a Dio stesso. Éléos è la traduzione abituale, nella versione greca dell’Antico Testamento, della parola ebraica hésèd. È una delle parole bibliche più belle.

Hésèd, misericordia o amore, fa parte del vocabolario dell’alleanza. Da parte di Dio, designa un amore incrollabile, capace di mantenere una comunione per sempre, qualsiasi cosa capiti: “Non si allontanerebbe da te il mio affetto” (Isaia 54,10). Poiché l’alleanza di Dio con il suo popolo è sin dall’inizio è una storia di infedeltà e nuovi inizi (Esodo 32–34), Questo genere di amore che comprende il perdono è la Misericordia.

Éléos traduce ancora un altro termine ebraico, quello di rahamîm. Questa parola va spesso di pari passo con hésèd, ma è più caricata di emozioni. Letteralmente, significa le viscere, è una forma plurale di réhèm, il seno materno. La misericordia, o la compassione, è qui l’amore avvertito, l’affetto di una madre per il suo bambino (Isaia 49,15), la tenerezza di un padre per i suoi figli (Salmo 103,13), un intenso amore fraterno (Genesi 43,30).

La misericordia, in senso biblico, è molto di più di un aspetto dell’amore di Dio. La misericordia è come l’essere stesso di Dio. Per tre volte davanti a Mosè, Dio pronuncia il suo nome. La prima volta, egli dice: “Io sono colui che sono” (Esodo 3,14). La seconda volta: “Farò grazia a chi vorrò far grazia, e avrò misericordia di chi vorrò aver misericordia” (Esodo 33,19). Il ritmo della frase è lo stesso, ma la grazia e la misericordia si sostituiscono all’essere. Per Dio, essere quello che è, è fare grazia e misericordia. Questo conferma la terza proclamazione del nome di Dio: «Il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di grazia e di fedeltà» (Esodo 34,6).

Quest’ultima formula è stata ripresa nei profeti e nei salmi, in particolare nel Salmo 103 (v. 8). Nella sua parte centrale, (vv. 11-13), questo salmo si meraviglia della vastità inaudita della misericordia di Dio. “Come il cielo è alto sulla terra, così è grande la sua misericordia”: è l’altezza di Dio, la sua trascendenza. Ma è anche la sua umanità, se si osa dire: “Come un padre ha pietà dei sui figli”. Così trascendente e allo stesso tempo così vicina, essa è capace di togliere ogni male: “Come dista l’oriente dall’occidente, così allontana da noi le nostre colpe”.

La misericordia è ciò che c’è di più divino in Dio, essa è anche ciò che c’è di più compiuto nell’uomo. “Ti corona di grazia e misericordia», dice ancora il Salmo 103. Bisogna leggere questo versetto alla luce di un altro versetto del Salmo 8 dove è detto che Dio corona l’essere umano “di gloria e di onore”. Creati a sua immagine, gli umani sono chiamati a condividere la gloria e l’onore di Dio. Ma è la misericordia e la tenerezza che ci fanno realmente partecipare alla vita stessa di Dio.

Giungiamo così alla parola di Gesù: “Siate misericordiosi, come è misericordioso il Padre vostro” (Luca 6,36) fa eco all’antico comandamento: “Siate santi, perché io, il Signor, Dio vostro, sono santo” (Levitico 19,2).

Alla santità, Gesù ha dato il volto della misericordia. È la misericordia che è il più puro riflesso di Dio in una vita umana. “Con la misericordia verso il prossimo tu assomigli a Dio” (Basilio il Grande). La misericordia è l’umanità di Dio. Essa è anche l’avvenire divino dell’uomo.

Ci aiuta ad intraprendere il cammino giubilare, la Speranza che Dio è Misericordia, “noi abbiamo creduto all’amore che Dio ha per noi”, dice Giovanni nella sua Prima Lettera al capitolo 4. Noi siamo coloro che hanno creduto all’amore: Dio è amore. Ci dimostra il Suo Amore l’insegnamento di Cristo che abbiamo avuto trasmesso nel Vangelo.

La parabola della pecora smarrita, la parabola della dracma o moneta perduta e quella del figlio prodigo o padre misericordioso. Sono tre parabole che ci svelano il volto di Dio misericordioso. L’inizio della prima parabola: “Chi di voi se ha cento pecore e ne perde una, non lascia la novantanove nel deserto e va dietro a quella perduta finché non la ritrova?” Noi diremmo che forse è meglio custodire le novantanove che abbiamo, anche perché se n’è persa solo una. Invece la misericordia di Dio ha a cuore ciascuno di noi, si applica la unicità irripetibilità di ciascuno di noi che pur essendo un grande numero siamo unici nelle relazioni. Proviamo a pensare se quella pecora perduta fosse mio figlio o mio fratello o mia moglie, senza esitazione andrei alla sua ricerca. La relazione dunque dice la preziosità e noi, ce lo ricorda Gesù siamo tutti: “Ecco mia madre e i miei fratelli! Poiché chiunque avrà fatto la volontà del Padre mio, che è nei cieli, mi è fratello e sorella e madre” (Matteo 12, 46). E poi il Vangelo prosegue così: “Una volta ritrovata se la mette in spalla, tutto contento”. Questo ci dice che non basta ritrovarla ma anche prendersene cura.

Il finale di questa parabola è importante: “Così vi dico, ci sarà più gioia in cielo per un peccatore convertito che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione”.

“O quale donna, se ha dieci dramme e ne perde una, non accende la lucerna e spazza la casa e cerca attentamente finché non la ritrova? E dopo averla trovata, chiama le amiche e le vicine, dicendo: Rallegratevi con me, perché ho ritrovato la dramma che avevo perduta. Così, vi dico, c’è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte”.

La parabola della dracma perduta è esclusiva di Luca. Sembra che il testo sia uguale a quella della pecorella perduta, ma in realtà ha una caratteristica notevolmente diversa: la moneta si perde senza allontanarsi, questa si perde rimanendo a casa. La dracma era una moneta equivalente, più o meno, a un denaro, ossia la paga giornaliera che si dava a un bracciante. Anche in questa parabola, il vertice è racchiuso nell’esperienza di una perdita e di un ritrovamento. I due momenti non sono simultanei e il primo aspetto è quello della perdita. La gioia del ritrovamento è preceduta dal dolore per la perdita.

La protagonista di questa parabola è appunto una donna che perde una moneta e non si dà pace, accende la luce, spazza la casa, guarda accuratamente in ogni angolo, è agitata, la cerca con forza, con tutto il suo essere, impiegando tutte le sue energie. La prima cosa che non fa è piangere o lamentarsi, ma iniziare la ricerca. “Accende una lucerna, spazza la casa, la cerca accuratamente” sono i dettagli di una ricerca. La donna, innanzitutto, accende la luce, perché altrimenti non potrà localizzare la sua preziosa moneta. La luce illumina tutt’intorno ogni oggetto.

Se manca anche una sola moneta la donna non può essere contenta, una vale mille, ha un valore per sé stessa, è indispensabile. La donna non dice: “Ecco ne avevo dieci me ne rimangono ancora nove, poco importa che una vada perduta”. Questa è una logica umana, tante volte si desiste dal cercare, dal fare tutto il possibile per salvare qualcuno, perché in fondo non lo si ama veramente. Al contrario la donna della parabola non lascia perdere la moneta che si è perduta, ai suoi occhi quella moneta ha un valore assoluto a cui non può rinunciare senza sentirsi estremamente impoverita. Così Dio non lascia perdere nessuno, su ciascuno ha posato il suo sguardo di amore e di misericordia, perché tutti noi siamo preziosi ai suoi occhi, anche se ingrati e peccatori. Se, infatti, non siamo con Lui, nella sua casa, nella sua stanza, non si dà pace, questo è l’amore di Dio!

La misericordia di Dio, è come un costante occhio che cerca ciò che non ha ancora trovato e desidera abbracciare ciò che si è perso. Uno, uno solo di noi, e per di più sbandato, è sufficiente a mettere Dio in cammino, a muovere le sue “viscere” materne, ognuno di noi vale il suo sacrificio.

Per questa donna tutte e dieci le monete sono preziose, tanto che, appena ritrova quella perduta, “chiama le amiche, le vicine” per far festa, per condividere con loro la gioia di aver ritrovato la moneta, “rallegratevi con me”. Quando si ritrova qualcuno che si pensava perduto, “bisogna” far festa. Dio ragiona così quando noi torniamo alla sua casa. Dio ci accoglie così anche se arriviamo dopo aver buttato via il suo tesoro.

Dio ci ama di un amore immenso ed incontenibile. Tutta la storia della salvezza ne è una chiarissima e splendida dimostrazione. Dal momento del peccato il Signore si è messo alla ricerca dell’uomo, nudo, spaurito e fuori del paradiso terrestre. In Gesù l’opera misericordiosa di Dio ha trovato il suo culmine, quando per ritrovare l’uomo e redimerlo dal peccato ha immolato se stesso sulla croce.

La parabola del padre misericordioso completa l’annuncio dell’amore di Dio: “Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: ‘Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio’. Ma il padre disse ai servi: ‘Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato’”.

E cominciarono a far festa. Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. Quello gli rispose: “Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo”. Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. Ma egli rispose a suo padre: “Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso”. Gli rispose il padre: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato” (Luca 15,1-3.11-32).

Il figlio maggiore resta fuori casa, non vuole entrare, il padre esce a supplicarlo. E lui che farà? Accetterà di partecipare alla festa o rinnegherà a sua volta il padre?

Infatti, è proprio a chi è raffigurato da quel figlio che la parabola è diretta, a quei farisei e scribi che mormorano perché Gesù mangia con i pubblici peccatori.

Gesù li invita a rallegrarsi per la fine del loro girovagare, per la porta aperta che finalmente hanno oltrepassato.

Che cosa trattiene questi fedelissimi della legge? Che cosa ci trattiene dal godere per chi, dopo aver vagato per mille pozzanghere, magari trovi solo all’ultimo momento la sorgente d’acqua pura? Che cosa ci trattiene dall’essere felici per chi, pur senza aver avuto le nostre carte in regola, sembra essere un passo avanti a noi nella comunità o addirittura nel regno di Dio?

Forse il problema dei farisei e degli scribi è il nostro, ed è quello del fratello maggiore: pensarci nella casa del Padre come in una prigione, sottoposti a una serie di condizioni che gli altri scavalcano senza problema, godendosi la vita. Dentro, ma con lo sguardo fuori, invidioso. Noi fedeli osservanti, loro liberi di seguire le voglie, noi rinunciando, loro spassandosela.

L’autore del Salmo 51, che ha conosciuto il freddo di vivere lontano da Dio, ricevuto il perdono, ha una sola priorità: “Annuncerò ai ribelli le tue vie e i peccatori a te ritorneranno” (v. 15).

“Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia” (Matteo 5,7). Ai misericordiosi, Gesù promette nient’altro che quello che già vivono: la misericordia. In tutte le altre beatitudini, la promessa contiene un di più, porta più lontano: coloro che piangono saranno consolati, i cuori puri vedranno Dio. Ma che cos’è che Dio potrebbe dare di più ai misericordiosi? La misericordia è pienezza di Dio e degli umani. I misericordiosi vivono già della vita stessa di Dio».

La conclusione del Delegato
Nob. Prof. Salvatore Bordonali

«Nel ringraziare il nostro Cappellano Don Davide per la bella meditazione di preparazione alla Pasqua, in questa antica Chiesa dedicata a San Giorgio, desidero riprendere brevemente due punti. Il primo è il suo riferimento al diverso linguaggio che si ritrova nei Vangeli, rispetto a quello che siamo abituati a sentire: non discorsi teorici, calati dall’alto o da una ideologia su di una realtà, che spesso viene adattata artificialmente per renderla corrispondente alla teoria; il vocabolario dei Vangeli, viceversa, è preso dalla vita comune, e da questa ci conduce al disegno divino.

L’altra notazione è quella relativa alle lapidi di cui è cosparso l’intero pavimento della chiesa. Un tempo erano essere viventi che stavano qui tra gli stessi banchi in cui siamo ora noi e le cui spoglie aspettano silenziose sotto le lapidi di essere risvegliare dal lungo sonno nel giorno della Risurrezione: ma cosa troveranno se noi oggi non proseguiamo il cammino di salvezza in cui hanno creduto e che ci è stato insegnato dai nostri padri? Ecco, l’Ordine Costantiniano si propone di continuare quel cammino, che potrebbe durare un tempo infinitamente più lontano di quanto possiamo immaginare oggi, ma che tocca a noi continuare idealmente e materialmente, poiché milizia non vuol dire un’astratta e distratta adesione ma disciplina di vita e una concreta adesione a valori ben precisi, come la famiglia e la Fede».

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