Come ha scritto il Dott. Giuseppe Ferraro nella sua Recensione, pubblicata su Diacronia 31,3 del 2017 [QUI]: «Il libro, in conclusione, permette di riflettere in maniera seria sugli errori commessi da parte delle classi dirigenti liberali nel processo di costruzione dello Stato italiano, senza cercare però per forza un’eccezionalità del caso (e tenendo conto delle differenze), rilevando che, anche in altri processi di costruzione dello Stato nazionale, la violenza del fuoco e dell’acciaio accompagnò e seguì la realizzazione del progetto politico: non dimenticando o tacendo che il 1860 per una parte degli Italiani fu anche l’anno della “sconfitta per mano straniera, della perdita della sovranità economica e politica, del peggioramento delle loro condizioni di vita, dell’inizio del ludibrio cui li espose un sentimento anti-meridionale di chiaro stampo razzista” (De Rienzo, p. 7-8)».
Dalla Controcopertina
«L’azione diplomatica costituì, subito dopo la nascita del Regno d’Italia (17 marzo 1881), il principale campo di lavoro del governo in esilio di Francesco Il. Principale attore di questa strategia sarà Pietro Calà Ulloa, capo dell’esecutivo e leader della corrente costituzionalista, liberale, federalista, sostenuta da Francesco lI, che si opponeva a quella conservatrice dei “legittimisti puri” capitanata dall’ex ministro delle Finanze Salvatore Murena e dalla Regina madre Maria Teresa. Il Primo ministro si dimostro convinto fautore della necessita di spostare il tema della “Nazione napoletana” dallo scenario italiano a quello europeo, per porlo al centro del dibattito politico internazionale. Calà Ulloa era, infatti, convinto che la funzione militare del “brigantaggio”, insufficiente in mezzi, coordinamento politico e strategico, doveva subordinarsi obbligatoriamente a quella sviluppata dalla diplomazia. La guerriglia contro le forze di occupazione discese da settentrione doveva avere come principale obiettivo quello di mostrare alle Potenze europee l’incapacità del governo di Torino a mantenere il controllo delle province meridionali, se non a patto di utilizzare contro suoi abitanti un insopportabile regime poliziesco e una spietata repressione».
La Recensione
A cura del Dott. Luigi Sanfilippo
Eugenio Di Rienzo L’Europa e la «questione napoletana 1861-1870». In appendice il discorso di Lord Lennox alla Camera dei Comuni dell’8 maggio 1863 (D’Amico Editore 2016, 160 pagine [QUI])
Il volume di Di Rienzo prenderebbe avvio da un interrogativo, quasi una provocazione di Paolo Mieli, sul «perché la storiografia italiana era rimasta a fare i conti con questioni tanto laceranti per la coscienza civile del nostro Paese, il fascismo…, il conflitto civile del 1943-45…, il difficile dopoguerra…, gli anni di piombo…, tardasse a farlo con l’allargamento del processo unitario al Mezzogiorno con l’opposizione […] di una parte considerevole delle popolazioni meridionali […] tra 1860 e 1870 a quel processo» [p. 7].
Da ciò l’articolato saggio di Eugenio Di Rienzo, nel prosieguo della sua riflessione storiografica, quale risposta al quesito. Attento ai problemi della storia presente, lontano da rivendicazioni neo legittimiste, ma rigoroso verso ogni «stolta mitologia risorgimentista».
L’appendice al volume dall’anastatico frontespizio, riporta del dibattito parlamentare inglese, tra rivendicazioni e ripensamenti dell’«affairs of Naples» il rilevante e rivelante discorso di Lord Henry Lennox, pronunziato l’8 maggio 1863 alla Camera dei Comuni a cui il Di Rienzo diverse pagine aveva dedicato nel precedente lavoro [Il Regno delle Due Sicilie e le potenze europee 1830 – 1861 (Rubettino 2011, 229 pagine [QUI])].
In merito al concetto della «Nazione napoletana» egli riprende le riflessioni di Giuseppe Galasso e di Aurelio Musi e di quest’ultimo segue le ariose linee storiografiche del concetto di «Nazione – Regnum» [p. 11] dal suo apparire come stato moderno alla definizione giannoniana, adattando il pensiero di Thomas Hobbes e John Locke, rendendolo funzionale allo «stato nazionale» prodromo, con i Borbone-Farnese, a dire di Francesco Barra [1993, p. 71] di un primo risorgimento italiano. Poi la loro ostinata opzione per lo stato amministrativo come modello su quello costituzionale tranne che a decidersi, ormai in limine mortis [p. 14]. Scelta che certo determinerà la sorte della «patria napoletana non scisse […] alla più grande patria italiana», intesa come «Sistema di stati […] (una) confederazione ma mai in unità» [p. 15]. Un’idea di nazione che sembra prendere vigore dopo il 1861 negli ambienti del governo in esilio delle Due Sicilie, insediatosi nell’avita residenza farnesiana di Roma ancora papalina, in cui vede prevalere alle posizioni legittimiste della corte, quella costituzionale liberal-federalista dell’esecutivo guidato da Pietro Calà Ulloa con l’assenso convinto del giovane Re. La strategia politico-diplomatica è quella, riprendendo l’autore, «di spostare il tema della “nazione napoletana”» [p. 17], percepita anche come patria italiana, dal contesto “nazionale” a quello europeo e non solo. Dunque, dalla dissoluzione all’insorgenza dalle pieghe sanfediste come lotta rivendicazionista-guerrigliera, contro l’occupazione piemontese, la cui “questio” se cioè fu vile brigantaggio o disperata resistenza, oggi ancora non trova pace.
Per il Di Rienzo, la vicenda umana e politica del Duca di Maddaloni, Francesco Proto, contraddittoria e lacerante, esempio altro di classe dirigente “meridionale” con la sua réquisitoire parlamentare presentata nell’autunno del 1861 debitamente censurata, assurge a paradigma dell’intera vicenda duo-siciliana. Dalla sua collocazione geo-politica al centro del Mediterraneo e degli interessi franco-inglesi contrapposti ma mirati. Alla sua politica estera, all’insegna della neutralità e della difesa dei propri diritti, gelosa di quelli commerciali ritenendosi storicamente «protetta tra l’acqua salata e l’acqua santa». Una condizione questa, considerata velleitaria, non consona ad uno stato di media potenza, da parte delle grandi «potenze marittime (Francia ed Inghilterra), che, dalla metà del XIX secolo, tentarono di trasformarla in una colonia economica […] funzionale alla loro strategia mediterranea» [Di Rienzo, 2012, p. 10].
Ne consegue una politica, sia pur diversificata nel palinsesto degli stati di demonizzazione, una costante azione di logoramento ed avversione delegittimante verso le Due Sicilie a cui quest’ultima risponde con altrettanta diffidenza e con la ricerca di un partenariato commerciale e politico-diplomatico diverso, oltre l’isolamento. Mi riferisco ai rapporti con la Russia zarista e l’ardito progetto politico-commerciale, anticipatore per certi versi, del Cancelliere asburgico von Schwarzenberg del 1851.
Di contro la “gioiosa” macchina sabauda, ben lubrificata fin dal trattato di Utrecht, dalla Gran Bretagna tra gli altri, vista come fautrice di un nuovo ordine europeo legittimata ad una politica di conquista ed occupazione delle “province” italiane oltre ogni nobile motivazione. Ne consegue una unità nazionale debole, geneticamente viziata per certi versi illegittima. Poi la beffa e lo scandalo plebiscitario, la delusione dei più, lo scoramento, la repressione, i drammi, le devianze oggi incombenti, l’insorgenza disperata, quasi un moto romantico ormai al tramonto.
Così il processo di «meridionalizzazione dello Stato» asserito e negato dal dibattito politico ma che sul piano storiografico impegna, tra gli altri, Federico Chabod a una riflessione severa su come il «“cambio della guardia” avesse creato i presupposti […] di una nuova incrinatura materiale e morale ancora oggi non ricomposta tra le “due Italie” pervenute a “unità” politica ma ancora lontane da una completa “unificazione”» [p. 79].
Un grido corale, il cui eco risuona in maniera distinta nella Camera dei Comuni di Westminster e anima il dibattito parlamentare che alla consueta contrapposizione dialettica tra Tory e Whig vede alzare i toni a motivo delle scelte di politica estera del Foreign Office verso gli Stati italiani pre-unitari e l’inquietudine che ne deriva per i soprusi e gli effetti della sospensione dei diritti civili statutari dell’Italia unita, verso le province già duo-siciliane. Di esso gli interventi autorevoli di Gladstone come Disraeli, di Palmerston o di Bentinck e di Butler-Johstone. Poi l’8 maggio 1863 il discorso su La Quistione Napoletana dell’Onorevole Lord Lennox, tra i più stretti collaboratori di Gladstone, quello della «Tirannide Borbonica» come la «negazione di Dio eretta a sistema di governo» [p. 104]. L’intervento, una requisitoria ben strutturata e documentata, contesta la politica estera del Regno Unito nel favorire «un’impresa illegittima e scellerata che aveva portato all’istaurazione di un vero e proprio Reign of Terror» [Di Rienzo, 2012, p. 198].
Il discorso di Lord Lennox per la vasta risonanza che ebbe nelle Cancellerie come nei salotti europei, così come nella editoria, costituisce un valido compendio del tormentato processo risorgimentista che permea in vario modo il Continente. Una fonte documentale di cui si è grati ad Eugenio Di Rienzo.
Intanto i nuovi assetti politico-istituzionali scaturiti dall’epilogo alquanto perturbato del decennio 1861-70 stabilizzano tra status quo, intese e alleanze, il palinsesto europeo, quello della Belle Époque e fino al suo tragico epilogo.
In essi non vi sono più margini di riscatto della «Questione napoletana» come patria italiana. Il «destino del grande “Piccolo Stato” napoletano si sarebbe riflesso, così, in quello della “Media Potenza” italiana fino ai nostri giorni» [ Di Rienzo, 2012, p. 218].
Il resto è l’oblio dignitoso di un giovane monarca ormai farnesianamente Duca di Castro, ritornare definitivamente in Francia dove, riprendendo Karl F. Werner [1988, p. 93], tutto ebbe inizio, quantomeno l’idea di Europa declinata dai Borbone e dagli Asburgo nelle loro diverse latitudini, chiudendo la propria esistenza ad Arco, in faccia alla “sua” Italia, conosciuto come «il Signor Fabiani» distinto, gentile e devoto signore.
Luigi Sanfilippo