Podcast 2-47 – Dottrina Sociale della Chiesa – Seconda parte: L’uomo come “sacerdote del cosmo”
Perché il Magistero della Chiesa si interessa di Dottrina Sociale, materia che sembra più di competenza sociologica o antropologica o, addirittura, politica? Questa domanda viene spesso posta in modo provocatorio, retorico o decisamente malevolo, ogni volta che i Sommi Pontefici propongono il proprio pensiero, che è, poi, il pensiero di tutta la Comunità dei credenti in Cristo sull’argomento in questione.
La risposta è più semplice di quanto l’artificiosità della domanda sembri far emergere. Compito e missione dell’insegnamento e della correlata formazione dei Christifideles affidato al Magistero e confortato dal “sensus fidei fidelium” è quello di dare un senso, appunto, alla vita della Chiesa in quanto Corpo Mistico di Cristo Gesù che ne è il Capo. Questo significa, né più e né meno, fornire un contributo, valido e certo, alla comprensione del cosmo, dell’uomo e di Dio, dove i tre termini costituiscono un disegno di relazioni che dà un senso al tutto, poiché nella concezione Cristiana parlare dell’uomo o del cosmo è sempre anche parlare di Dio.
È quello che intendo fare in questa introduzione concettuale alla Dottrina Sociale della Chiesa.
Conoscenza dell’uomo e conoscenza dell’universo portano allo stupore, alla lode del Creatore o, quanto meno, a porsi domande fondamentali. E questa lode è un atto sacro, una liturgia cosmica che vede come protagonista l’uomo. A fondamento del sacerdozio ministeriale c’è quello originato dal Battesimo per cui ogni essere umano è chiamato ad offrire il vero culto, che Paolo (Rm 12,1) chiama “culto spirituale”, che è l’essenza della vita Cristiana. Sono proprio gli adoratori in spirito e verità che il Creatore e Padre cerca, come ci assicura Gesù stesso in Giovanni 4,23-24.
Dio non chiede offerte materiali, perché il vero culto è quello della vita buona e giusta che, proprio per questo, è lode di Dio e dunque culto spirituale autentico, perché: “Gloria Dei vivens homo” (San Ireneo di Lione).
Vivere nel mondo e gestirlo è parte del sacerdozio universale voluto dal Creatore e reso possibile dal Salvatore e Redentore. Il cosmo intero è affidato all’uomo perché ne usi e non ne abusi, ma lo amministri con responsabilità e sacralità (Gn 2,15). È un dono sacro non una proprietà e come tale va accolto con gratitudine, apprezzato e gestito come cosa preziosa da custodire e da far fruttare secondo i carismi di ciascuno (cfr. Parabola delle mine in Lc 19,11-27) e per il bene di tutti come ci ricorda incessantemente Papa Francesco praticamente in ogni suo intervento Magisteriale.
Come non ricordare i versi del Cantico di Francesco d’Assisi? “Altissimu onnipotente bon Signore tue so’ le laude la gloria e l’honore et onne benedictione. A te solo, Altissimo, se konfàno… Laudato sie mi’ Signore, cum tucte le tue creature…”. È la grande liturgia che adora, rende grazie, per il cosmo che è l’ornamento, come dice il nome stesso, creato e donato da Dio all’uomo, fatto a sua immagine e somiglianza (Gn 1,26), come riflesso di se stesso.
Dal XIII al XXI secolo, nonostante le abissali differenze antropologiche, c’è un “fil rouge”, una continuità lungo il corso di una storia del cosmo che anche oggi continua a stupire ed a meravigliare (Cfr. La Teologia della storia di Henri Irénée Marrou). Per questo la teologia ha qualcosa da offrire al mondo, non solo correzioni di errori e buoni esempi, ma anche, e soprattutto, una consapevolezza dell’uomo che sia coerente con le leggi del cosmo e le sue aspirazioni profonde.
Alla luce di quanto detto sopra, quale è il senso della nostra concezione del mondo? Ogni nostra azione, dalla più impegnativa e ragionata a quella più semplice e quasi automatica, anzi, anche ogni nostra omissione o incoerenza, sono espressioni del senso che diamo al nostro vivere sulla Terra. Se perdiamo questo senso unitario, a meno che ciò non sia dovuto ad una qualche patologia, perdiamo la coerenza della nostra vita. Certamente occorre considerare lo spazio della nostra libertà creata che non ci può essere sottratto ed a cui non possiamo rinunciare. Ma la nostra azione risponde ad esigenze ben più complesse degli innumerevoli e mutevoli stimoli immediati da soddisfare. Del resto non c’è nessuna azione che non si possa svolgere in modi diversi e non presenti alternative. Tuttavia il nostro agire risponde ad una logica di cui è rivelatore e che rappresenta il nostro “stile di vita”, la nostra Weltanschauung, da cui dipenderanno le nostre scelte coscienti. Esso dipende dalla nostra educazione, dalla nostra esperienza e dalla nostra percezione del mondo e del suo divenire.
Però il modo di rispondere alla domanda di senso non può essere sempre ed in ogni occasione oggetto di approfondita ed esaustiva analisi ed oculata e lunga valutazione razionale. Questa metodologia di scelta di una risposta nel “qui ed ora”, anche su domande di natura teleologica, ci porterebbe ad una sostanziale paralisi decisionale o ad una alienazione patologica. Le nostre scelte sono anche condizionate in qualche modo dal mutare del contesto storico che ci chiama ad un continuo lavoro di adattamento e di elaborazione delle risposte che la tradizione del passato ci suggerisce o ci fornisce.
Ma oggi noi viviamo in un ambiente del tutto nuovo rispetto ai nostri avi anche più recenti.
Prima di tutto è cambiata la percezione del mondo grazie al vertiginoso sviluppo delle conoscenze scientifiche che ci ha aperto ad un nuovo ed inusitato paradigma interpretativo del creato, quello della complessità, che non ci consente più di affidarci alla rassicurante semplificazione scientista.
Poi il nostro stesso ambiente naturale si presenta in modo totalmente differente rispetto al passato grazie alla scoperta di nuovi legami e affinità tra l’uomo e gli altri viventi che ci porta, necessariamente, a rivedere e ricomprendere la nostra collocazione all’interno del cosmo senza, però, che sia annullata la nostra personale peculiarità esclusiva che si fonda proprio sulla relazionalità “a immagine e somiglianza” divina.
Questa è spinta oggi ad un punto mai raggiunto prima e si invera mediante una rete di comunicazione globale capace di modificare in modo irreversibile l’ambiente culturale e quindi anche quello fisico in cui l’uomo si trova ad agire. La comunicazione globale con la mobilità planetaria di persone e di beni ha cambiato totalmente i riferimenti all’appartenenza, la concezione delle tradizioni religiose, il rapporto tra locale e globale in una sorta di pseudo “unificazione del genere umano”, dalle conseguenze ancora imprevedibili, che sembra realizzarsi in modo ambivalente ed ambiguo, in cui il vantaggio non è esente da danno, che si manifesta nell’aumento di conflittualità, ingiustizia e, paradossalmente, diseguaglianza soprattutto sociale ed economica.
Comprendere tutto ciò non è solo un esercizio teorico e non ha ricadute significative solo sul benessere personale e non è neppure un obbiettivo per chi volesse dilettarsi nella ricerca del “vivere bene”. Infatti non solo il singolo, in minima parte, ma tutta l’umanità ha da sempre un effettivo potere sul destino del pianeta. Abbiamo progressivamente antropizzato il “nostro” globo e soprattutto oggi, grazie ai poteri derivanti dalle sopra accennate “conquiste”, anche piccoli gruppi gestiscono strumenti dal grande impatto sulla biosfera.
Ovviamente gli effetti della azione di un’umanità disunita, perché non depositaria di risposte di senso chiare e condivise e deviata dalla cupidigia e dall’egoismo a breve termine, si mostrano come alterazione deleteria del nostro ecosistema le cui devastazioni, tra l’altro, possono non essere completamente evidenti oggi, ma, sicuramente, lo saranno per le generazioni future (Cfr. Caritas in veritate, 43 – 52; Laudato sì, 17 – 61).
Si tratta di una abnorme “crisi di crescita” di un uomo che non sa padroneggiare il suo enorme potere (Cfr. Gaudium et spes, 15). Occorre urgentemente elaborare nuovi strumenti perché rimpiangere il passato o infuriarsi per il cieco egoismo dell’uomo non ci farà superare la crisi di livello planetario che chiede una risposta operativa fondata su di un paradigma culturale e spirituale nuovo.
In un sistema dinamico come il nostro pianeta, la risposta non può essere chiusa in nuove regole o nuove formule che limitino le attività umane, anche quelle evidentemente dannose, per evitare effetti indesiderati. Tutti siamo testimoni che i tentativi di gestire le crisi mediante moltiplicazione di leggi, regolamenti, norme, novelle “grida” di manzoniana memoria, non possono, a posteriori, affrontare efficacemente le minacce globali al loro sorgere. È pura illusione per la quale una buona fede presunta neppure si può più oggi porre.
Alla base di ogni azione per affrontare in modo efficace, efficiente ed “economico”, di una economia come quella Trinitaria “ad intra et ad extra”, un futuro che non sia abominazione, ma Redenzione e Santificazione, occorre, propedeuticamente, capire quali sono i principi assiologici orientanti dell’agire umano. Questi solo possono intervenire al sorgere dei problemi in sinergia con norme che abbiano veramente il compito non solo di limitare i danni, ma di prevenirli, indirizzando e ricordando, “universis et singulis”, a ciascuno ed a tutti, che il mondo è in divenire ed è un macrosistema integrato di una complessità inconcepibile, di cui l’umanità, protesa incessantemente verso “un oltre ed un di più”, fa parte integrante. Per questo, ogni proposta univoca e chiusa in sistema risulta insoddisfacente e la soluzione del problema richiede una visione orientata e sintetica che dia un senso e non semplicemente una soluzione che, comunque, non sarebbe mai definitiva. In altri termini, non si può trattare di una chiusura dei conti in sospeso con il passato come una sorta di bilancio consuntivo, ma di un’apertura verso l’avvenire, di un preventivo virtuoso.
La domanda sull’agire dell’uomo che abbiamo posto all’inizio di questo lavoro è, per il credente, di natura teologica per i motivi precedentemente esaminati. Essa mette in relazione vitale la teologia, la politica, l’economia e l’ecologia. Per il Cristiano, incorporato a Cristo nel suo Corpo Mistico, ciò vuol dire una costante sollecitazione al discernimento ed all’apertura alla Grazia. Il suo vivere quotidiano è forgiato dalla storia, ma la sua è una storia di salvezza che narra un’inabitazione divina alla luce delle virtù di fede, speranza ed amore che gli consente di comprendere il mistero di salvezza del Cristo. Ma come? Mediante la Rivelazione il Cristiano da un senso al cosmo e, così, la sua esistenza non è più in balia del caso o della necessità e non è più paralizzata dall’incertezza o, peggio, dalla paura dell’ignoto.
Certo, sapere che Dio ci salva in Cristo e sperimentare la sua presenza amorosa, non basta senza una conversione vera. L’uomo è costruttivamente proteso verso “l’essere di più” (Caritas in veritate, 14) in quanto partecipa della natura divina (2 Pt 1,4) e possiede in sé una realtà che lo spinge oltre e viene espressa vivendo poiché, come scrive Sant’Ireneo (Adversus haereses IV, 207): “Gloria Dei vivens homo, vitam autem hominis visio Dei (est)”. La Rivelazione, come promesso dallo Spirito (Gv 14,25-26; Gv 16,12-13; Dei verbum, 4. 8) restaura la somiglianza divina perduta, consente di raggiungere la Verità della nostra esistenza e restituisce libertà e senso al nostro vivere recuperando l’armonia e l’equilibrio che Dio dona all’uomo con il suo amore (Gv 17,3; Gaudium et spes, 19; Lumen gentium, 2). Questa “Visio Dei” è un “già e non ancora”, più e più volte espresso nelle Scritture, che chiama l’uomo ad un continuo divenire in Cristo fino alla Parusia. Questa chiamata risponde all’ordine della Creazione all’interno della logica dell’Incarnazione e può essere compresa da tutti gli uomini, ma non basta a determinare l’adesione della fede. Occorre dare anche risposte solide e fondate alla domanda di senso degli uomini. Questo è il compito della teologia che deve aiutare a vivere a realizzare il progetto di salvezza dispiegato nella Rivelazione e calare nella complessità della realtà i principi immutabili e l’unica Parola che salva e santifica fornendo risposte ed analisi adattate ai tempi. Non annuncia nuovi modelli teorici o filosofici, ma illustra, nella preghiera e nella ortoprassi dell’amore-carità, il senso profondo della speranza che viene dalla Rivelazione e nella fede nel rapporto intimo con il Creatore.
Indice dei podcast trasmessi [QUI]

Foto di copertina: Ambrogio Lorenzetti, Effetti del Buon Governo in Città (dettaglio) (fa parte di Allegoria ed Effetti del Buono e del Cattivo Governo, una serie di affreschi realizzati da Lorenzetti, contemporaneo al periodo del Governo dei Nove, volendo dare una rappresentazione del governo e delle conseguenze positive dello stesso nella società, e nella vita nella Città di Siena), 1338-40, affresco su parete, 200×720 cm, Sala della Pace, Palazzo Pubblico, Siena, Italia.
«Amate la giustizia voi che governate questa terra»
Gli affreschi del Buon e del Cattivo Governo di Siena
In Toscana, i frutti più nobili del lavoro e della creatività umana risalgono all’epoca in cui le città raggiunsero in Italia un livello di vita avanzatissimo e costituirono degli Stati il cui obiettivo non era la potenza ma il benessere dei cittadini. La riproduzione più significativa di questa epoca è quella degli affreschi del Buon e del Cattivo Governo, dipinti fra il 1337 ed il 1339 da Ambrogio Lorenzetti nella Sala dei Nove del Palazzo Pubblico di Siena e che rimangono di una grande importanza per il mondo contemporaneo. Furono commissionati ad Ambrogio Lorenzetti dal Governo dei Nove, che governò Siena dal 1287 al 1355, nel momento in cui la città è all’apogeo della sua potenza e della sua ricchezza ed è una delle quindici città più importanti d’Europa. Una potenza ed una ricchezza che Siena deve alla Via Francigena, una rete di strade e stradine che seguono i pellegrini provenienti dalla Francia per andare a Roma, che è anche un’arteria fondamentale per gli scambi ed il commercio fra l’Oriente e l’Occidente. Grazie a questa strada i mercanti senesi possono esportare i loro beni verso il nord dell’Europa ed importare d’Oriente spezie, tessuti e pietre preziose, come gli stili artistici ed i colori che ne fanno ancora il suo splendore. Con questi affreschi, Lorenzetti è chiamato a fare l’elogio del modello politico sofisticato della Repubblica di Siena.
Nell’allegoria del Buon Governo, la dama vestita di rosso porpora ed oro è la Giustizia, con la frase Amate la giustizia voi che governate questa terra, che apre il Libro della Saggezza. La stessa frase si legge nella pergamena che Gesù tiene in mano nella Maestà di Simone Martini, che si trova nella Sala del Mappamondo, dove si riuniva il Gran Consiglio di Siena, il Parlamento della Città. È la frase che Dante vede apparire nel cielo del Paradiso.
Le altre due figure che sono al centro del dipinto, sono la Saggezza e la Concordia, che sono legate da una corda ai cittadini che a loro volta la passano al Comune di Siena, rappresentato da una persona vestita in bianco e nero, i colori della Città. Tutti i dettagli dell’allegoria fanno riferimento alla concezione filosofica e del mondo di Aristotele e di San Tommaso d’Aquino, che sono l’essenza della Divina Commedia.

Nelle immagini che riproducono gli effetti del Buon Governo, Lorenzetti ha dipinto le sue caratteristiche e le sue conseguenze. Tutti si danno da fare e lavorano ad ogni angolo di strada; i contadini scambiano i loro prodotti e parlano con gli abitanti della città. I bambini giocano. Le fanciulle danzano, una donna in rosso convola a nozze e fonda una nuova famiglia, in un quadro di pace e serenità. Un’atmosfera che si oppone a quella di guerra e di distruzione provocata dal cattivo governo, rappresentato nell’allegoria del cattivo governo, i suoi effetti in città ed i suoi effetti in campagna.

L’allegoria del Cattivo Governo è dominata da una figura con le corna, il tiranno, che è strabico. Il tiranno non è per Lorenzetti, e la sua epoca, il dittatore. Il tiranno è colui che non pensa che ai suoi interessi e non vede il bene comune.
Nel 1310, il governo di Siena ha fatto tradurre gli Statuti della Città in toscano, affinché tutti i Senesi possano capire le leggi e le regole della vita comune. Nel 1337, commissionando gli affreschi a Lorenzetti, il Governo dei Nove vuole dire a tutti i cittadini, anche coloro che non sanno leggere, che la miglior forma di governo possibile è la repubblica.
I 9 che componevano il governo della Repubblica di Siena assumono il loro compito a rotazione, per un periodo di 3 a 6 mesi, restano rinchiusi nel Palazzo durante tutto il periodo del loro mandato per essere totalmente a servizio dei loro ideali e dedicarsi interamente alla missione del Bene Comune, che si oppone all’interesse particolare. Il nome originario degli affreschi è “il Bene Comune e la Pace” ed è solamente nel XVII secolo che vengono chiamati “Il Buon e il Cattivo Governo”.
Gli affreschi del Buon e del Cattivo Governo fanno comprendere che è sul rispetto dei valori etici come la giustizia, la saggezza, la concordia, che riposa il buon governo, quello che assicura il “Bene Comune”, il bene di tutti. Essi fanno vedere che è nelle città che è nato quel sistema di governo straordinario che è stato quello delle repubbliche italiane del Medio Evo, le Città-Stato, in cui un terzo dei cittadini partecipavano concretamente alla vita pubblica e politica. Essi ricordano che queste Città-Stato avevano fondato la loro potenza e la loro ricchezza sul commercio e lo scambio con il resto del mondo e che quelle società fiorenti furono il punto di partenza del Rinascimento, che avrebbe contribuito allo sviluppo dell’Europa e dell’umanità.