I Cavalieri, le Dame e i Postulanti, accolti dal Delegato, l’Ing. Dott. Gilberto Spinardi, Cavaliere Gran Croce di Merito, e il Referente per Pavia, il Dott. Gianfranco Cicala, Cavaliere di Merito con Placca d’Argento, hanno iniziato l’incontro con una visita guidata agli antichi locali del Museo di Villa Perabò-Melzi-Cagnola, detta più semplicemente Villa Cagnola, che ospita una considerevole collezione d’arte privata. Include numerose opere, tra le quali svariati fondi oro e tavole di pittori toscani e veneti del Trecento e Quattrocento e lombardi del Quattro e Cinquecento. Non meno importanti risultano gli altri manufatti, acquistati nel tempo da Giuseppe, Carlo e Guido Cagnola: arazzi, placchette bronzee, maioliche e porcellane. Queste ultime costituiscono una delle più importanti collezioni private del territorio europeo.
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La villa fu edificata dalla famiglia Perabò, che possedeva proprietà a Gazzada già nella seconda metà del Cinquecento. Nel corso del Settecento i fratelli Gabrio e Giuseppe Perabò ampliarono la villa, realizzando il corpo orientale. Nel 1838 la famiglia Perabò cedette la proprietà di Gazzada a Ludovico Melzi d’Eril, figura di spicco della nobiltà milanese, appartenente a una delle famiglie più facoltose del Lombardo-Veneto. A quest’epoca la villa comprendeva due corpi di fabbrica, uno a est, affacciato sul lago di Varese e un altro a ovest verso l’ingresso collegati da un’ala aperta al primo piano con un portico a colonne binate a due campate. strutturata su due piani. Una planimetria della proprietà documenta l’esistenza di giardini sia sul lato meridionale che sul lato occidentale e una grande corte di corpi rustici a nord della villa.

Nel 1850 Ludovico Melzi d’Eril cedette la villa insieme a tutte le proprietà a Giuseppe Cagnola, rappresentante dell’alta borghesia milanese. Il complesso fu ereditato nel 1856 dal figlio Carlo Cagnola, Senatore del Regno, che decise la ristrutturazione della villa, con una trasformazione secondo il gusto romantico allora in voga, dotandola di un parco all’inglese. Il figlio Guido alla sua morte devolse il patrimonio artistico ed edilizio alla Santa Sede, con rogito notarile del 2 maggio 1946, nel quale si dichiara: “L’Illustrissimo Signor Guido Cagnola desideroso di assicurare in perpetuo la conservazione della monumentale Villa Cagnola di Gazzada e la conservazione del patrimonio artistico, storico, letterario in essa contenuto raccolto dal Padre suo e da lui stesso, nonché far sorgere un Istituto Superiore di Studi Religiosi con sede nella Villa di Gazzada, ha proposto alla Santa Sede di farle donazione degli stabili e mobili di cui appresso sottoponendole a un tempo uno schema di costituzione e regolamento del detto Istituto”.

L’Istituto Superiore di Studi Religiosi di Villa Cagnola nasce per volontà del Nobile Guido Cagnola che nel 1946, donando la sua Villa di Gazzada, desiderava venisse fondato un centro che unisse intendimenti scientifici di promozione dello «studio dei problemi religiosi» e finalità pratiche di formazione «del clero e del laicato» per elevare la «vita religiosa e spirituale del popolo italiano». Questo «bel disegno», suggerito da Don Luigi Bietti all’amico Cagnola e da questi a lungo meditato prima della convinta adesione, trovò vivo interessamento in Giovanni Battista Montini che, prima come Sostituto alla Segreteria di Stato e poi come Arcivescovo metropolita di Milano, favorì la donazione e la valorizzazione del servizio culturale di Villa Cagnola come strumento di dialogo, di confronto e di maturazione interiore. Il ruolo della cultura nel dialogo della Chiesa con il mondo contemporaneo, già chiaro nei primi contatti di Montini con Villa Cagnola, si tradusse nella creazione, il 2 giugno 1960, dell’Istituto Superiore di Studi Religiosi, come un luogo di incontro e centro studi per la promozione del dialogo tra diverse culture e religioni.
Nel 1976 venne costituito un secondo Istituto, la Fondazione Ambrosiana Paolo VI-Istituto per l’Evangelizzazione e la Promozione Umana, alla quale fino al 2017 vennero affidate le attività di studio e ricerca per l’organizzazione della maggior parte dei Convegni di Studi Religiosi. Il 23 giugno 2017 la Fondazione Ambrosiana Paolo VI è stata incorporata nel rinominato Istituto Superiore di Studi Religiosi Beato Paolo VI, che prosegue nell’attività che da oltre mezzo secolo l’ha contraddistinto come un qualificato laboratorio di ricerca e di elaborazione della cultura Cattolica.
In 58 anni di attività gli Istituti di Villa Cagnola hanno promosso svariate iniziative di ricerca su temi di interesse etico, pastorale e incontri di carattere ecumenico, progetti di studio su problemi di attualità legati al rapporto tra Cristianesimo e civiltà contemporanea. Hanno realizzato convegni, seminari e ricerche interdisciplinari su temi nodali della cultura Cristiana, che vantano la partecipazione di illustri studiosi di molti Paesi europei. In particolare, l’originale iniziativa «unica» nel suo genere, delle «settimane di storia religiosa europea», diretta a studiare e documentare il contribuito determinante del Cristianesimo alla costituzione e alla crescita dell’identità dei diversi popoli. Promuove numerosi eventi concernenti l’arte, a partire dallo studio e dalla valorizzazione della consistente Collezione custodita in Villa Cagnola.


Terminata la visita guidata al Museo, è stata celebrata alle ore 18.00 presso la cappella di Villa Cagnola la Santa Messa vespertina della Terza Domenica di Avvento, presieduta da Prof. Don Stefano Peretti, concelebrante Don Maurizio Ormas, Cappellani di Merito con Placca d’Argento. La liturgia è stata animato dalla voce della Contessa Fadrique Donà dalle Rose dei Duchi de Vargas Machuca, Dama di Giustizia, accompagnato dal suono dell’organo.
Riportiamo di seguito l’omelia tenuta da Don Stefano Peretti.
«Cari fratelli e sorelle, viviamo il nostro momento annuale di preparazione al Santo Natale, un momento formativo che, assieme a quello che vivremo alle soglie della Pasqua, segna il nostro cammino di Cavalieri Cristiani, nutre le ragioni di tale appartenenza cavalleresca, ravviva il senso della militanza, definisce i tratti della nostra identità all’interno dell’Ordine.
Ciascuno di noi non è diventato Cavaliere del Sacro Militare Ordine Costantiniano di San Giorgio per la decorazione, o per la cena di gala, o per favori e benefici di utile sociale od economico, ma per concretizzare, in un carisma, il modo di vivere e declinare il Vangelo di Cristo nel mondo odierno.
Pertanto, la preghiera e la meditazione della Parola di Dio sono il nerbo con cui la nostra fede acquisisce consapevolezza di senso e vigore di testimonianza, pur corroborandosi necessariamente nel nutrimento eucaristico e nell’attingere alla misericordia del Padre nel sacramento della riconciliazione.
Le letture appena proclamate, secondo il rito ambrosiano, ci preparano, direi scientificamente, al Natale.
Nella Lettura (Is 45, 1-8) la Parola di Dio presenta Ciro, un pagano, come salvatore degli oppressi e difensore dei deboli, anzi un eletto dal Signore, il Dio di Israele, addirittura mandato da questo Dio. Dio dice del suo eletto, cioè Ciro, di averlo chiamato per nome: questo non significa rivendicare un potere su di lui (dare il nome alle cose comporta nella Bibbia generalmente avere un dominio su di esse), ma vuol dire aver stabilito una relazione profonda, intima e significativa. Così è per ciascuno di noi, chiamati ciascuno per nome da Dio, in quanto noi non siamo un popolo, ma tutti i popoli, in quanto raccogliamo il suo mandato per amore, edificando la giustizia e liberando la terra.
Se Dio, dunque, ci chiama per nome, anche noi possiamo chiamare Dio per nome, cioè da un tu a un Tu: questa è la preghiera, poiché il pregare è un pregare nella fede. In questa reciprocità di relazioni-incontro la preghiera diventa fede e la fede si fa preghiera. La fede diventa così testimonianza e annuncio. La testimonianza che si è fatta annuncio matura poi in profezia.
E così veniamo a comprendere il Salmo Responsoriale, il 126, Salmo delle ascensioni. “Grandi cose ha fatto il Signore per noi” dice il testo, “per noi” in ebraico è ‘immanû, cioè significa un rapporto privilegiato che Dio ha con i suoi eletti e che troverà nel nome Immanuel (Dio con noi), il culmine e la piena manifestazione.
Questo ci dice che nella nostra preghiera, intesa come abbiamo detto poc’anzi, dobbiamo essere più concentrati sulle cose belle che vengono da Dio, piuttosto che sulle difficoltà della vita, poiché è certo che Dio compie cose grandi e chi ne fa esperienza è ricolmo di gioia. Certo non ci è dato di conoscere la modalità di ristabilimento delle sorti, ma ci è data la certezza che ci sarà questo ristabilimento.
Si comprende, così, la seconda parte del testo, in cui il salmista non parla più di una sorte da ristabilire, ma la chiede come una cosa da realizzare. La preghiera si apre così all’attesa della realizzazione piena. Così anche noi quando attraversiamo il buio dobbiamo rimanere aperti alla speranza e saldi nella fede, perché la luce di Dio è già presente nella nostra vita e il sì di Dio è più forte di tutto. È solo questa gratitudine, nella dinamica intrinseca del dono, che può trasformarsi in speranza e così nutrire la nostra fiducia.
E arriviamo, così, all’Epistola, tratta dalla Lettera ai Romani (Rm 9,1-5), scritta circa trent’anni dopo la morte e la risurrezione di Gesù. In questo brano, Paolo soffre perché il popolo di Israele non crede al Messia come lui; molti, infatti, avevano aderito alla fede in Cristo, ma nell’insieme il suo popolo era lontano dalla fede nel Signore Gesù. Paolo resta sconcertato del mistero di Israele, ma ricorda i segni della predilezione del Signore verso questo popolo: perciò egli mantiene un atteggiamento di fiducia, perché crede nella misericordia di Dio ed è convinto che il Signore operi continuamente e sia capace di capovolgere anche le normali aspettative. Il rifiuto di Israele non rappresenta il venir meno del piano di Dio, ma ha un senso provvidenziale, ovvero a causa del rifiuto sono le genti e entrare nel piano di Dio. Le promesse di Dio sono irrevocabili. L’indurimento da parte di Israele non comporta il venir meno dell’alleanza. Da Marcione a von Harnack si è affacciata spesso la tentazione di disfarsi dell’Antico Testamento, quasi fosse un ingombro al Nuovo, ma la Chiesa ha sempre resistito a questo, basti pensare anche alla teologia agostiniana del “popolo testimone”. È così che Paolo arriva a ipotizzare di una futura conversione di Israele.
L’unità non si raggiunge omologando o semplificando, ma amalgamando osmoticamente la pluriformità. È questo il compito dello Spirito Santo, ma a ben vedere è anche l’evolversi della provvidenza di Dio dentro la vita di ciascuno di noi.
Arriviamo finalmente al brano di Vangelo (Lc 7,18-28). Nel testo proclamato, San Luca vuole aiutarci a capire quanto fosse diverso attendere il Messia all’interno del popolo di Israele: una differenza che coinvolgeva non solo in una maniera le persone semplici e in un’altra quelle dotte ed esperte della legge, ma anche le persone più vicine a Giovanni Battista.
L’interrogativo che il precursore pone sul messianismo di Gesù è drammatico. Il Messia si riteneva, allora, essere un giustiziere, un regolatore delle libertà, un personaggio d’autorità che avrebbe plasticamente rimesso in valore ciò che era giusto; per questo Giovanni aveva ritenuto che per meritare la presenza di una persona così, bisognasse chiedere perdono e fare penitenza. Giovanni attende, anzi dimostra una certa impazienza nell’aspettare, giustamente crede che il primo gesto che il Messia può fare e deve fare sia la sua liberazione dalle catene, ma soprattutto il cambiamento atteso da tanti e da tanto, sul quale il Battista si è giocato tutto.
Gesù non risponde direttamente all’interrogare del cugino e che cosa fa? Con una peculiarità pedagogica tipica della vera dimensione affettiva, anticipa il vedere all’udire. Fa capire a Giovanni, e a noi, che bisogna prima vedere, cioè saper scorgere la novità del Cristo. Solo così si può interiorizzare l’udire.
È qui che si innesta la liberazione. È qui che la parola diventa testimonianza, significato, garanzia. È in questa dinamica che il contenuto pronunciato si fa percepito.
Il credente è colui che non abbandona la ricerca, ma continuamente si pone delle domande, anche su Dio.
Il credente è colui che non solo legge, ma anche comprende esistenzialmente, con il senso della ragione accordato agli occhi del cuore, la Parola del Maestro.
Il credente è colui che sa, al fondo del suo cuore, che il messaggio del carpentiere di Nazareth non sembra molto logico, non pare immediatamente chiaro, non si palesa come del tutto normale e non è per niente tranquillo e scontato. Ma è la Verità. Per questo i tempi e lo stile del regno di Gesù sono enormemente nuovi, diversi e aprono a un orizzonte inaspettato. L’unico ostacolo è vaccinarsi nei confronti dello scandalo portato da Gesù.
Giovanni è rinchiuso nella fortezza di Macheronte e viene raggiunto dalle notizie che riguardano Gesù e perciò formula la domanda centrale: “Sei tu colui che viene oppure attendiamo un altro?” Notate la singolarità della domanda: il Battista che aveva speso la sua vita ad indicare il Messia ora ha un dubbio proprio riguardo a ciò per cui aveva speso l’esistenza, quasi come se le cose non tornassero più. Il bello di questa situazione è che neanche le catene riescono a imprigionare l’attesa di Giovanni! In effetti l’attesa non riguarda qualcosa, ma Qualcuno.
L’espressione “colui che viene” era usata per indicare il Salvatore-Messia. Cristo rimane colui che viene, cioè l’attesa non è mai compiuta: noi lo attendiamo sempre anche se sappiamo che è Lui e chi è Lui, perché ogni attesa inerisce a una continua purificazione e l’attesa di Cristo nella vita di ciascuno invoca delle purificazioni necessarie per accoglierLo nella maniera pertinente. Cristo prima si accoglie, poi si conosce. Non dobbiamo per questo rattristarci. È ciò che ha vissuto il Battista e pure Pietro e tanti altri discepoli.
La domanda che spesso ci devasta è brutale, anzi proprio dilaniante: come fai ad essere tu il Messia se il mondo va così male e sembra non essere cambiato nulla?
Giovanni dà voce alle obiezioni naturali di tutti e di ogni tempo. Noi facciamo fatica ad accettare che chi è posto in autorità o ha responsabilità possa esternare dei dubbi, ma se guardiamo bene, Giovanni può fare questa domanda a Gesù proprio perché ha una sua riconosciuta autorevolezza di vita.
Gesù risponde elencando dei gesti che riportano Vita. Ecco per capire è necessario scorgere i segni di Vita. Il regno c’è. Non annulla le cose che non vanno, ma ci indica la direzione dove andare. A volte pur non conoscendo il perché si può capire il senso. Ed è il senso che fa vivere, non il perché.
Così comprendiamo che l’azione salvifica di Gesù non è stata quella di vincere il male con un’azione soverchiante e potente, ma portandolo su di sé per amore e trascendendolo nell’Amore. Non serve far fuori i cattivi, occorre costruire spazi di amore: questo è il compito del Cavaliere Cristiano.
Occorre uscire dalle nostre pseudo certezze e lasciarci incontrare dalla Verità. Gesù consegna il suo messaggio a questi discepoli, in ricerca, in cammino e soprattutto senza paura.
Così deve essere il Cavaliere Cristiano: in cammino, in ricerca, senza paura, capace di avvicinare i fratelli e le sorelle a Cristo, abile nell’andare in profondità alle cose, delicato nello sviscerare i desideri del cuore; pur con le inevitabili fatiche e non senza i congrui dubbi.
Il Cavaliere Cristiano non è una canna sbattuta dal vento, cioè non va col più forte per vigliaccheria o col potente per piaggeria; non asseconda la corrente dominante omologandosi, ma va controcorrente per amore del vero, del giusto, del bene, del bello.
Il Cavaliere Cristiano non ha vesti delicate, cioè non si ammanta del potere fine a sé stesso, facendo dell’ambizione il suo codice etico. Certo è difficile: anche i discepoli di Gesù hanno discusso su chi tra loro contasse di più.
Occorre, però, ricordare quanto dice Gesù: “Il più piccolo nel regno di Dio è più grande del Battista”, cioè nel regno di Dio si capovolgono le grandezze umane. Per fortuna!
Noi non siamo chiamati a cambiare Cristo, ma siamo invitati a convertire le nostre attese e le nostre immagini di Dio. Allora, solo allora, sarà Natale».
Al termine del Sacro Rito, il Delegato ha rivolto un ringraziamento ai partecipanti, esortandogli all’aggregazione tra Confratelli.

Successivamente, l’aperitivo e la cena si sono svolti nei locali attigui alla biblioteca di Villa Cagnola, in uno spirito di condivisione e coesione tra i Cavalieri, le Dame e i Postulanti.