Podcast 2-25A – Meditazione sul Tempo di Avvento
Attesa. Vale ancora la pena di attendere? La nostra esistenza di esseri limitati, finiti ed imperfetti, è permeata, per tutti, da un sentimento di carenza, insufficienza, mancanza di realizzazione, insoddisfazione, ricerca di alternative. Appare, per molti, non per tutti, intimamente strutturata su una istanza di desiderio, di completezza, realizzazione e, perché no, di felicità. È un’attesa condizionata che non riesce mai a coniugare all’indicativo l’anelito alla felicità. Un imperativo inceppa per tanti, troppi, questo processo gioioso di liberazione: la fissazione paranoica sul godimento a tutti i costi, che anestetizza l’esperienza del limite e inietta nelle vene un velenoso «male di vivere» (E. Montale).
Ci siamo fermati, forse troppo spesso, sulle idee e sui comportamenti, dimenticando che ogni ideale, anche il più sublime, non serve a niente se non è intimamente creduto e vissuto e ogni comportamento, anche quello più moralmente giusto e buono, non giova a niente se non è esistenzialmente vissuto oltreché voluto. Per saper coniugare insieme gli ottativi, gli indicativi e gli imperativi in modo unificato e liberante, abbiamo bisogno di riscoprire una terza dimensione della vita spirituale: il desiderio cui abbiamo già accennato sopra. La facoltà di desiderare rappresenta il tratto più distintivo della nostra creaturalità a immagine e somiglianza di Dio, ma anche la zona più esposta alle seduzioni del Nemico.
Vecchie e nuove patologie del desiderio, fantasmi di morte e angosce apocalittiche infestano le nostre vite. Davanti alla precarietà delle nostre giornate, il desiderio si atrofizza e cerca soddisfazione in capricci sempre più meschini: “pochi, maledetti e subito”. Tutte queste considerazioni diventano, ovviamente, ancora più tragiche quando manca non solo il lavoro, l’impresa in senso economico, ma anche quelle “imprese spirituali”, personali e comunitarie, abili a scatenare risurrezione e vita. Parole come “Dio”, “vita eterna” o “redenzione” ci sembrano concetti inutili, incapaci di illuminare la realtà, scollegati da essa. Già, la realtà. Quale realtà? Che cos’è reale in un mondo di relazioni virtuali?
La parola Avvento, rimandando al nostro tempo della vita incentrato su questa drammatica attesa di un qualcosa che sappiamo irraggiungibile, interroga pesantemente quanti di noi hanno fondato la propria vita non solo su basi materialistiche, di qualunque origine ideologica, ma, soprattutto, sulla speranza di un Altro, di un Oltre. Per coloro, pur sedicenti Cristiani, che, in realtà e per tanti motivi anche validi, almeno per loro, non hanno o non hanno più, aneliti spirituali e che, oggi, purtroppo, sembrano maggioranza, il tempo di attesa dell’Avvento non ha nulla di speciale. Prelude, semplicemente, a un periodo di vacanza che contiene ricorrenze commerciali e folcloristiche, residuo di antiche tradizioni popolari buone solo per i bambini o poco più.
Ma per altri, che, a forza di nascondersi, sembrano sempre meno, che continuano, nonostante tutto e tutti, a coltivare una vita spirituale attiva, è un tempo di lievitazione nascosta di tutti quei fermenti vitali che sono, appunto, alla base di un vitalismo intimo e struggente che geme e soffre in attesa del parto come poeticamente scrive Paolo in Romani 8,18-23: “Io ritengo, infatti, che le sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla gloria futura che dovrà essere rivelata in noi. La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio; essa infatti è stata sottomessa alla caducità – non per suo volere, ma per volere di colui che l’ha sottomessa – e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio. Sappiamo bene infatti che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto. Essa non è la sola, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo”.
Nella prime tre Domeniche d’Avvento ascolteremo la voce del profeta Isaia, che preconizza un doppio ritorno: il ritorno del popolo a Dio e il ritorno di Dio al popolo, grazie a un Messia umile, misericordioso, apportatore di giustizia e di pace.
La tragica esperienza dell’esilio non ha reso “migliore” il popolo dell’alleanza: “Nessuno invocava il tuo nome, nessuno si risvegliava per stringersi a te” (Is 56,6 nella Prima Domenica). A ben vedere, viviamo in un’epoca che assomiglia molto a quella del Profeta: non speravamo anche noi di essere “migliori” dopo tante esperienze, anche recenti, negative e devastanti? Invece, ci siamo accontentati di vivacchiare. Eppure, da noi, persino la luce fioca d’inverno indora i nostri panorami e ci invita alla beata speranza della venuta del nostro Signore Gesù Cristo… Dov’è andata a finire l’attesa delle cose ultime? Perché il cielo è diventato così lontano?
Il profeta ha saputo custodire il desiderio di Dio e, così, può intercedere a favore del popolo, chiedendo ciò che nessuno aveva mai osato chiedere: “Se tu squarciassi i cieli e scendessi!” (Is 63,19 sempre nella Prima Domenica). Il verbo “scendere” segnala l’iniziativa di Dio davanti all’impossibilità dell’uomo di “salire”. Solo Dio può attraversare l’incolmabile distanza tra il fango della terra e le stelle del cielo. “Desiderio” deriva appunto da de-sidera, cioè anelare a raggiungere addirittura le stelle.
Anche se l’uomo è “fatto di polvere” dalle mani di Dio, è stato “fatto poco meno di un dio, di gloria e di onore lo hai coronato” ci dice il Salmo 8,6. E questa dignità la scopro anche io “quando vedo i tuoi cieli, opera delle tue dita, la luna e le stelle che tu hai fissato” recita lo stesso Salmo 8,4. Le mani che ci hanno plasmato sono quelle dell’Infinito.
La nostra liberazione dalla fragilità creaturale diventa sempre più effettiva quanto più ci lasciamo plasmare dallo Spirito. L’esperienza del confine e del limite, tra le mani affidabili di Dio, non sarà più un “dis-astro”, un dramma senza senso, ma la terapia grazie alla quale curiamo la costipazione del nostro desiderio e diventiamo, così, grembo accogliente di vita buona. Noi non siamo semplicemente “figli delle stelle”, ma “figli nel Figlio”. Quel primo Avvento nella storia prepara, nel tempo intermedio della Chiesa, la seconda venuta del Salvatore.
Com’è accaduto nella sua prima venuta, anche oggi c’è il rischio che la venuta del Salvatore sia accolta nella totale indifferenza. Ancora una volta, la Parola di Dio (Seconda Domenica) ci spinge ad una insurrezione pacifica contro il dogma dell’indifferenza: bisogna “gridare”, e “alzare la voce” contro il chiasso e l’ottundimento generale; occorre “salire su un alto monte”, respirare a pieni polmoni e recuperare una visione olistica della realtà. “Consolate, consolate il mio popolo!” (Is 40,1): ovvero, “accompagnate chi è solo” e fategli amare di nuovo la vita. Il fango non scandalizza più, perché in esso si è calato Dio stesso, ma: “ecco, il Signore viene con potenza”. Quando siamo raggiunti da una besorah, ossia da una buona notizia (Terza Domenica), non possiamo sottrarci dalla gioia di trasmetterla agli altri, non solo a parole, ma entrando in empatia con l’umano, soprattutto quello più fragile e ferito, quello che è da solo, isolato, emarginato. Con l’avvento di Gesù, tutta la comunità dei Christifideles è coinvolta in questa trasformazione messianica del reale, intrecciando cose da dire (portare il lieto annuncio ai poveri, proclamare la libertà degli schiavi e la scarcerazione ai prigionieri) e cose da fare (fasciare le piaghe dei cuori spezzati, e, promulgare la misericordia del Signore). Con l’incarnazione del Verbo sappiamo che Dio ha ascoltato la supplica del profeta: il Padre ha squarciato i cieli e ci ha fatto conoscere il Figlio, che ha dato alla nostra argilla ribelle la forma della figliolanza.
Come riattivare, dunque, il desiderio di Dio e del suo ritorno? Quali sussidi possono essere messi a disposizione per una impresa spirituale così urgente? Il desiderio non è conquista dell’oggetto, ma contemplazione, attesa della sua manifestazione, perché, lo sappiamo: “Non si vede bene che con il cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi” (Il piccolo principe, Antoine de Saint-Exupery, 1900-1944). Come esercitare questo sguardo? Come resistere alla bulimia del “tutto e subito”?
Nel Vangelo della Prima Domenica ritorna per ben quattro volte il verbo “vegliare”. A ben vedere è quello di cui ha urgente bisogno il nostro tempo: saper scuotere il torpore delle coscienze e il buio dei falsi desideri indotti dalla mentalità di questo mondo. Possiamo desiderare di più. Invece di aspettare uno dei tanti piccoli dei, gli idoli, cui tributiamo i nostri fallaci culti terreni per ottenere un falso potere personale, possiamo sperare nell’incontro con il vero Padrone del Creato. Non importa se “alla sera o a mezzanotte o al canto del gallo o al mattino” (Mc 13,33-37). Dio verrà, Egli non tarda. “A chi cerca il Signore non manca alcun bene” (Sal 34).
Nella Seconda e Terza Domenica di Avvento ci viene proposta la figura di Giovanni, il Battista, ma non è lui il protagonista della scena. La sua vita austera e semplice è un invito a convertirci e vivere nella sobrietà, senza lasciarci sedurre dalla frenesia consumistica. La sua missione consiste nello scuotere le coscienze ed indicare l’Atteso, il Messia: “Dopo di me viene uno che è più forte di me” (Mc 1,7). Con una triplice negazione (Gv 1,19-22) il Battista respinge via da sé le proiezioni messianiche dei suoi interlocutori: lui non è il Cristo, né Elia, né il Profeta. Questi “no” preparano il “sì” della sua identità profetica: il Battista è Voce, phoné, che dà sonorità all’attesa, altrimenti vuota, della Parola, il Logos.
Voce e Parola sono intrecciate: la Voce, qui e ora, permette alla Parola eterna di dipanarsi nel tempo e orienta la ricerca verso uno che sta in mezzo a loro, ma che gli interroganti non conoscono (Gv 1,26).
Le nostre liturgie d’Avvento non sono altro che questo: una preparazione alla venuta di un futuro, che è già presente. Difatti, tra la prima venuta nella carne e l’ultima venuta nella gloria, non si deve dimenticare la presenza continua e reale del Cristo sotto i “mistici veli” dei Sacramenti, in maniera eminente nell’Eucaristia, pegno della gloria futura. Ed anche in una forma più misteriosa e sconvolgente perché ignorata dai più: quella nei poveri cristi, che “avrete sempre con voi” (Mc 14,7) sapendo che “chi accoglie voi accoglie me e chi accoglie me accoglie Colui che mi ha mandato” (Mt 10,40).
Un’altra anticipazione che Dio ci dona, accanto all’Eucaristia, è la Madre, colei che per singolare privilegio è stata preservata dal peccato, l’Immacolata, e con un atto di piena libertà ha accolto l’incarnazione del Verbo, aderendo totalmente al progetto di Dio (Quarta Domenica). Maria, innamorata di Dio, ci conquista a Dio. La sua Immacolata Concezione segna già l’inizio del compimento. Da lei possiamo imparare non solo a desiderare, ma anche a con-siderare (stare con le stelle), cioè a guardare la realtà con gli occhi stessi di Dio.
Seconda parte: Commento biblico-liturgico sui Vangeli del Tempo di Avvento [QUI]
Indice dei podcast trasmessi [QUI]