Podcast 2-40 – Parabola cosa è
Oggi vorrei illustrare un termine che noi Cristiani, anche quelli meno praticanti, sentiamo talmente tanto spesso come riferito all’annuncio evangelico di Gesù Cristo, da passare quasi inosservato: Parabola.
Dal punto di vista etimologico è un termine latino che deriva dal greco παραβολή, a sua volta derivato da παρα – βάλλω ossia “porre di fronte per confrontare”. Dall’analisi etimologica, si può solo dedurre che essa è un espediente letterario, un artificio retorico, volto a porre di fronte a qualcuno qualcosa che va poi confrontato con qualcos’altro per trarne un insegnamento.
Ma perché questa parola ricorre così spesso proprio nell’ambito della nostra religione Cristiana, che sembra essersene addirittura appropriata? Occorre partire dal fatto che l’annunzio del Vangelo è evento di grazia che, per fede, conduce alla salvezza e proprio in questo ambito salvifico la parabola assume una funzione di servizio: passando dal piano dell’annuncio a quello del dialogo prepara la via al Vangelo, rimuovendo i pregiudizi degli ascoltatori liberandoli dagli ostacoli che possono intromettersi fra loro e l’accoglienza dell’annuncio di fede.
Compreso questo ruolo all’interno dei Vangeli, la parabola assume il suo significato proprio nell’ambito della storia della salvezza annunciata da Gesù. Essa è, allora, un racconto fittizio, simbolico, narrante cioè una vicenda non reale, ma verosimile e finalizzato ad un scopo, costruito strategicamente per sortire un certo effetto e provocare una reazione, prima emotiva e poi razionale, nell’interlocutore.
Anche quando è utilizzata come espediente letterario al di fuori dell’ambito religioso, essa possiede caratteristiche proprie che non la rendono assimilabile alla allegoria né alla metafora né alla comparazione.
L’allegoria, infatti, gioca su un continuo scambio tra immagine e realtà, tra racconto fittizio e vicenda reale, per cui l’ascoltatore comprende fin da subito il tentativo di comparazione in atto tra le diverse istanze, impedendo proprio il mascheramento, condizione necessaria all’”effetto parabola”, che consiste nel far sentire l’interlocutore “con le spalle al muro” rispetto alla vicenda narrata.
La metafora è costruita, invece, sulla giustapposizione di due diversi campi semantici. Nella parabola non si verifica questa giustapposizione: non nella vicenda fittizia sviluppata attorno ad una logica interna ben precisa, né al momento del trasferimento nel mondo reale che si basa necessariamente su una identità strutturale tra le due situazioni. Nella parabola il confronto non avviene a livello semantico (vedremo che non tutti gli elementi del racconto vanno presi in considerazione) ma, per l’appunto, a livello logico-strutturale.
La parabola non è neanche una comparazione ampliata e prolungata, infatti non è sufficiente che ci sia un qualsiasi legame tra due frasi e/o due racconti perché si abbia necessariamente una parabola. Il trasferimento dal reale al fittizio e viceversa deve condurre a quel preciso giudizio, e non ad un altro. Il narratore mette in scena un racconto fittizio che non esclude l’utilizzo di elementi realmente esistenti e l’ambientazione risulta legata ad un contesto sociale e culturale specifico ben comprensibile da parte degli ascoltatori. Ciò è da tenere in considerazione, sempre però in un’ottica di subordinazione rispetto all’intenzione del narratore, per cui non tutti gli elementi proposti andranno ripresi nella parte applicativa della parabola.
Spesso questi “elementi accessori” servono solo per calare il racconto in un contesto condiviso o per muovere le emozioni degli interattanti. Questa costruzione consente all’autore di trasferire i suoi ascoltatori in un mondo fittizio, ma verosimile ed in sintonia con il loro modo di vivere. Il trasferimento è provvisorio: ad un certo punto essi verranno ritrasferiti dal fittizio al reale, si troveranno faccia a faccia con una realtà ben determinata, condivisibile, che l’autore della parabola aveva in mente sin dall’inizio e in funzione della quale aveva costruito il racconto. Questo doppio passaggio permette al narratore di condurre gli ascoltatori verso un giudizio che, nel contesto della vicenda reale, questi non avrebbero mai pronunciato per non mettersi contro se stessi: il racconto fittizio induce l’ascoltatore a prendere posizione nettamente, non comprendendo la simmetria con la vicenda di cui è protagonista.
La parabola nella sua applicazione è quindi come un’improvvisa “doccia fredda”, una specie di tranello (mirante però alla salvezza e non alla rovina) che scatta quanto è ormai troppo tardi per tirarsene fuori. Questo artificio ha lo scopo di far allentare quelle resistenze interiori che inevitabilmente scattano appena ci si accorge di essere interpellati o coinvolti in prima persona, quando ci si trova di fronte a qualcosa che implica il mettersi in questione, o quando si sente che riconoscere e ammettere la verità costerebbe qualcosa.
Perché la parabola funzioni correttamente occorre che il racconto sia saldamente strutturato in modo tale che il giudizio che l’interlocutore è chiamato a pronunciare sia quello pensato dal parabolista e non un altro e la vicenda fittizia deve trovare il giusto equilibrio tra diversità ed identità con la vicenda reale tale che quella stessa valutazione possa essere applicata a quest’ultima.
Perché non si affronta subito la realtà presentando direttamente il messaggio che si intende veicolare? Perché le resistenze interiori degli ascoltatori impedirebbero di assumere un atteggiamento imparziale e disinteressato. Attraverso questo passaggio, dal reale al fittizio, implicante un mascheramento, si mette in condizione l’interlocutore di osservare e giudicare con libertà e imparzialità. Il passaggio dal fittizio al reale, che costituisce l’asse portante della struttura di una parabola, non è un artificio puramente retorico, ma ha una sua funzione precisa e ben determinata. Il narratore che costruisce il racconto induce l’interlocutore ad esprimersi, a prendere posizione e a formulare un giudizio che, come già detto, è ben presente nella “mens” dell’autore. Il trasferimento ora si inverte: dal fittizio si ritorna al reale e il giudizio emesso viene attribuito alla vicenda attuale. L’”effetto parabola” consiste proprio nell’impossibilità dell’interlocutore di sottrarsi alla valutazione imparziale che lui stesso aveva emesso.
La comprensione di una parabola, che culmina in una illuminazione istantanea, include vari momenti distintivi: capire il racconto; coglierne il punto culminante, pronunciando un’opinione-giudizio (cfr. 2Sam 12,5); cogliere la complementarietà tra la vicenda fittizia e quella reale, in modo da poter trasferire dall’una all’altra, il giudizio già pronunciato. Segue quindi l’”effetto sorpresa”, che scatta appena ci si rende conto di essere interpellati o coinvolti in prima persona in qualcosa che implica il mettersi in questione.
È quindi un procedimento di tipo argomentativo, che implica un mascheramento per impedire che l’interlocutore sia messo subito direttamente di fronte la realtà che lo coinvolge. Per poter funzionare il racconto deve portare a una precisa valutazione e non un’altra e deve avere sì un mascheramento, una certa differenza con il reale, ma deve altresì possedere sufficiente somiglianza.
Si dice che la parabola ha un solo “punctum comparationis” o punto culminante da paragonare tra fittizio e reale: si vuole dire che non tutti gli elementi della vicenda fittizia vanno trasferiti in quella reale; se tutto fosse trasferibile tra le due situazioni non ci sarebbe solo corrispondenza strutturale, ma addirittura identità, non si avrebbe il “mascheramento”, che è indispensabile al funzionamento della parabola. Ciò non implica necessariamente che i singoli elementi non abbiano valore, ma solo che non hanno valore autonomo, valgono per il rapporto che scaturisce dalla loro correlazione.
Infatti nella parabola del granello di senapa (Mc 4,30-32) il punto da trasferire non è la piccolezza iniziale, né la grandezza finale, bensì il rapporto dinamico che le collega; altresì nella parabola del tesoro e della perla (Mt 13,44-46), oltre al ritrovamento, è indispensabile la vendita di tutti i beni.
La parabola non intende trasmettere un significato, altrimenti se ne potrebbe fare a meno e spiegare senza mascheramenti, ma vuole sortire un effetto prima di tutto emotivo e poi razionale.
L’elaborazione della parabola nei Vangeli ha una evoluzione che va dal Gesù storico al redattore del Vangelo. Leggendo le parabole occorre tener conto che originariamente Gesù si rivolgeva quasi sempre ad un pubblico misto (discepoli, folla, scribi e farisei, ecc.). In seguito esse vennero usate nella catechesi della Chiesa nascente, per poi confluire in elaborati scritti di vario genere e natura, una piccola, piccolissima parte dei quali vennero selezionati come canonici e rivelati: Vangeli, Atti, Lettere,… e furono quindi proposte a dei Cristiani, o comunque a credenti in Gesù, subendo quindi un cambiamento di “pubblico” e quindi di prospettiva.
Come esempio di questa “evoluzione” della struttura parabolica prendiamo una pericope del Vangelo di Luca molto nota: quella che tratta del fariseo e del pubblicano al Tempio (Lc 18,9-14). Al tempo del Gesù storico il fariseo rappresentava generalmente e pacificamente, per gli ascoltatori, sicuramente tutti Ebrei – altrimenti il messaggio parabolico non avrebbe suscitato l’effetto voluto dal Maestro – un modello di vita religiosa da imitare in quanto destinatario della benevolenza divina. Il pubblicano era invece considerano, sempre in ambiente giudaico contemporaneo a Gesù, un furfante sfruttatore e peccatore incallito destinato alla perdizione ed al fuoco della Geena.
Con buona approssimazione possiamo individuare quali parti della parabola lucana risalgono al Gesù storico (vv. 10-14a), e quali invece rappresentano una introduzione successivamente aggiunta (v. 9). Luca ha di fronte a sé una comunità molto più eterogenea rispetto a quella che assistette alla predicazione di Gesù. Parecchi, probabilmente non erano nemmeno Giudei. Per i pagani, i termini “fariseo” e “pubblicano” non avevano più il significato ovvio ed evidente che avevano per gli Israeliti. Però, sicuramente c’erano già dei Cristiani che si sentivano “giusti” e “disprezzavano gli altri” in quanto peccatori.
Nel v. 14b il Redattore introduce un altro ammaestramento, anche questa indirizzato alla comunità e che riguarda l’atteggiamento giusto o sbagliato da tenere davanti a Dio, specialmente nella preghiera. Per capire il senso che la parabola aveva per il Gesù storico, occorre prescindere dall’introduzione (v. 9) e interpretazione-applicazione del Redattore (v. 14b) e ricollocarsi nell’ambientazione originaria del Gesù storico: possiamo allora riuscire ad immaginarci quale effetto-sorpresa, se non un vero e proprio scandalo, devono aver suscitato le parole di Gesù negli ascoltatori: il peccatore incallito, ma cosciente della sua totale dipendenza dalla misericordia dell’unico Onnipotente, viene dichiarato gradito a Dio, che invece rifiuta la salvezza al fariseo, al “giusto” che, pure, aveva osservato ciecamente e solo ritualmente, con la mente e non col cuore, comandi e precetti di uomini fatti passare per divini (Mc 7,1-13).
Il messaggio che Gesù voleva comunicare è che non ci si può salvare con le proprie forze neanche esibendo le buone opere fatte, ma vivendo la dipendenza totale dalla grazia di Dio, cioè nell’atteggiamento giusto che rende onore a Dio che ama e da gratuitamente a chi non ha.
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Foto di copertina: Domenico Fetti detto il Mantovano, La parabola del grano e della zizzania, 1618-22 circa, olio su tavola, 60,8×44,5 cm, Nàrodni Galerie, Praga.
«Un’altra parabola espose loro così: “Il regno dei cieli si può paragonare a un uomo che ha seminato del buon seme nel suo campo. Ma mentre tutti dormivano venne il suo nemico, seminò zizzania in mezzo al grano e se ne andò. Quando poi la messe fiorì e fece frutto, ecco apparve anche la zizzania. Allora i servi andarono dal padrone di casa e gli dissero: Padrone, non hai seminato del buon seme nel tuo campo? Da dove viene dunque la zizzania? Ed egli rispose loro: Un nemico ha fatto questo. E i servi gli dissero: Vuoi dunque che andiamo a raccoglierla? No, rispose, perché non succeda che, cogliendo la zizzania, con essa sradichiate anche il grano. Lasciate che l’una e l’altro crescano insieme fino alla mietitura e al momento della mietitura dirò ai mietitori: Cogliete prima la zizzania e legatela in fastelli per bruciarla; il grano invece riponetelo nel mio granaio”» (Mt 13,24-30).
Il dipinto “La parabola del grano e della zizzania” di Domenico Fetti illustra la prima parte della parabola e mostra la scena che si svolge in un campo, dove compaiono in primo piano tre servi del padrone del terreno, che dopo aver seminato del buon grano, stanchi per il lavoro, si sono addormentati in terra; al centro, in secondo piano, il diavolo, travestito da contadino, che lancia i semi nel terreno arato. Le sue sembianze sono umane, ma si comprende che è il diavolo per il piede biforcuto che lo rende zoppo e le piccole corna, che spuntano fra i capelli, rivelando la sua essenza demoniaca. Il nemico del bravo seminatore getta nel campo semi d’erbacce infestanti, quali la zizzania.
Il pittore comunica il carattere paradigmatico dell’evento con uno stile simile a quello che alcuni studiosi chiamano realismo magico: un’atmosfera suggestiva, quasi fiabesca, con elementi naturalistici (le nuvole, gli alberi, il seminatore) tale da introdurre nell’ambito dell’allegoria, e che invita a spiegare la situazione in termini escatologici che Gesù Cristo spiega nella seconda parte della parabola. La “situazione”, infatti, non riguarda solo il campo e il sabotaggio del nemico, ma una tematica più delicata: la coesistenza del Bene e del Male.