Podcast 2-33 – 25 dicembre 2024 – Solennità del Natale del Signore. Alleluia! Oggi è nato il Salvatore!
«C’erano in quella regione alcuni pastori che vegliavano di notte facendo la guardia al loro gregge. Un angelo del Signore si presentò davanti a loro e la gloria del Signore li avvolse di luce. (…) «Non temete, ecco vi annunzio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi vi è nato nella città di Davide un salvatore, che è il Cristo Signore. (…) E subito apparve con l’angelo una moltitudine dell’esercito celeste che lodava Dio e diceva: “Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini che egli ama”» (Cfr. Luca 2,1-14).
La Tradizione relativa al Natale del Signore, che è tanto cara, “universis et singulis”, rimanda alle immagini dei Natali passati nella nostra infanzia, alle indimenticabili esperienze familiari del Presepe e ci fa subito pensare ad uno dei canti natalizi più amati in Italia, la cui musica era attribuita al compositore barocco francese François Couperin (1668-1733), ma le cui parole sono di un autore ignoto: “In notte placida, per muto sentier, dai campi del ciel è sceso l’Amor”. In quella notte la storia della salvezza è passata dai giorni del desiderio a quelli del compimento. L’Amore non è più un’idea astratta, ma la sconvolgente realtà storica di Gesù di Nazaret.
Nella prima Lettera di Giovanni (4,2) è scritto: “Ogni spirito che riconosce che Gesù Cristo è venuto nella carne, è da Dio” e, come ci ricorda Papa Francesco nella Laudato sì (96), “è Gesù stesso a fare propria la fede biblica nel Dio creatore ed a mettere in risalto un dato fondamentale: Dio è Padre (cfr Mt 11,25). Nei dialoghi con i suoi discepoli, Gesù li invitava a riconoscere la relazione paterna che Dio ha con tutte le creature, e ricordava loro, con una commovente tenerezza, come ciascuna di esse è importante ai suoi occhi: “Cinque passeri non si vendono forse per due soldi? Eppure nemmeno uno di essi è dimenticato davanti a Dio” (Lc 12,6). “Guardate gli uccelli del cielo: non seminano e non mietono, né raccolgono nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre” (Mt 6,26)”.
Se in Avvento il desiderio e l’attesa hanno dilatato la nostra anima, adesso siamo pronti ad accogliere la manifestazione del Signore. Dio ha finalmente squarciato i cieli ed è venuto ad abitare in mezzo a noi (Gv 1,14). Il grande problema della fede cristiana e, forse, anche il grande scandalo per il mondo, è accogliere la carne di Dio e tenere tra le nostre braccia fragili il Dio del Sinai, terribile e tremendo nella sua impressionante e sconvolgente teofania, ora fattosi piccolo, minimo, neonato, cucciolo d’uomo. È stupefacente e mirabolante anche solo il cercare di capire razionalmente che la mia fragilità è adesso anche la sua.
Il Natale celebra l’amore di Dio fattosi nuda carne, vulnerabile e indifeso, povero ed emarginato, ignoto ed ignorato, offeso e perdente agli occhi del Mondo ma che, vulnerato nella sua nudità umana, vince il Mondo e salva l’intera creazione resa eterna liturgia di lode del Creatore. Le implicazioni sono vertiginose e dopo duemila anni di Cristianesimo ancora facciamo fatica a interiorizzare il mistero dell’incarnazione, che ha ispirato le più sublimi pagine di santi, mistici, teologi, poeti di tutti i tempi e di tutti i Paesi.
Il Natale è la festa della luce. Le letture delle tre Messe proposte per la celebrazione della solennità del Natale del Signore (Messa della notte, dell’aurora e del giorno) esprimono l’irrompere nel mondo della vera luce (cfr. anche le letture proposte per l’Epifania). Dal punto di vista della ciclicità stagionale, il giorno di Natale, dopo il solstizio d’inverno, segna il passaggio a una presenza sempre più crescente della luce durante il giorno.
Ma che cos’è la luce? Pare che la parola, nella sua radice indoeuropea, richiama la dimensione della trascendenza. Secondo il Qohelet “dolce è la luce e agli occhi piace vedere il sole” (Qo 11,7). Sta di fatto che tutta la rivelazione biblica è attraversata dal simbolo della luce: a partire dal primo atto della creazione (Gn 1,3-4), fino al termine della storia, quando non ci sarà più bisogno “della luce del sole, né della luce della luna: la gloria di Dio la illumina e la sua lampada è l’Agnello” (Ap 21,23).
In particolare, il simbolismo della luce ritorna nei testi messianici ed escatologici e tutta la storia della salvezza è rappresentata quasi come uno scenario bellico tra la luce e le tenebre, tra la morte e la vita. Il Battista non era la luce, ma dava testimonianza alla luce. Con l’incarnazione del Verbo è venuta nel mondo la luce vera che illumina ogni uomo. Chi si lascia illuminare riceve il potere di diventare figlio di Dio per mezzo della generazione dello Spirito. Nell’espressione “dare alla luce” è sintetizzato il nesso tra vita e luce.
Purtroppo, tutto questo simbolismo è stato depotenziato dalla artificiosità della luce elettrica che rende quasi impossibile fare esperienza sensoriale delle vere tenebre e, quindi, ritornare a comprendere il senso della luce nella nostra vita. L’assenza di luce rende inservibile il senso della vista. Affinché gli occhi facciano arrivare al cervello le percezioni degli oggetti è necessaria la mediazione della luce. Ogni percezione visiva è connessa alla capacità conoscitiva. In greco, orao (vedo) e oida (so) hanno origine dalla stessa radice verbale. Ebbene, celebrare il Natale significa resistere alle tenebre del caos che tentano di invaderci, smettere di lamentarci e disperare e cominciare a ri-vedere e a ri-conoscere anche in questo nostro disgraziato tempo un tempo di grazia e di salvezza. Anche noi, come i pastori, “andiamo dunque fino a Betlemme; vediamo questo che il Signore ci ha fatto conoscere” (Lc 2,15).
Vero è che l’irrompere della luce nelle tenebre rappresenta un simbolo luminoso, una grandiosa teofania del mistero di Dio. Tuttavia, la luce natalizia, intensissima e tremenda, ha caratteristiche peculiari: non si manifesta come abbagliante ed immateriale trascendenza divina, che acceca gli occhi di chi osserva, ma come tenue fiamma viva che scalda e illumina il cuore e le mente di ogni uomo. Dio si rivela a noi come Tenerezza: il salmista non cessa di proclamare che “pietà e tenerezza è il Signore” (Sal 102,8; 110,4) e che “la sua tenerezza si espande su tutte le creature” (Sal 144,9). Non serve più “tenere duro” per entrare nella vita se Dio stesso, per entrarvi, si è fatto tenero, bambino. In questo Natale, dopo la durezza dei mesi passati, dobbiamo riscoprire atteggiamenti di tenerezza: cura, attenzione, gratuità, delicatezza, felicità per la presenza dell’altro.
Secondo l’Antico Testamento nessuno può vedere Dio, perché chi lo vede muore. Con l’Incarnazione, invece, Dio s’è reso visibile, come dirà il vecchio Simeone (Vangelo della I Domenica dopo Natale, festa della Santa Famiglia): “I miei occhi hanno visto la tua salvezza… luce per illuminare le genti” (Lc 2,30.32). L’iconografia orientale ha sviluppato questo tema presentando Simeone come “theódochos”, ossia come “colui che accoglie Dio”. Il vegliardo che stringe tra le braccia il Messia lungamente atteso appaga il desiderio antico e apre allo stupore del Dio fatto tenerezza. In questa scena d’incontro tra l’antico e il nuovo, sarebbe bello ambientare anche i nostri rapporti familiari e il nostro bisogno di legami intergenerazionali più autentici e saldi.
Il compimento non ha spento il desiderio, che continuiamo ad esprime ogni volta che ci raduniamo per celebrare l’eucaristia: “Annunciamo la tua morte, Signore, proclamiamo la tua risurrezione, nell’attesa della tua venuta”. Tuttavia la chiave del desiderio non è più la promessa, ma il compimento, ossia la realtà divino-umana di Gesù.
Nessuno dice che sia facile; facile non è stato neanche per la santa coppia di sposi che ha accolto il Salvatore: c’è la notte, il freddo, il buio, la paura, il rifiuto del mondo, la fatica, il dubbio, la fuga, la persecuzione… ma c’è anche, più forte, la certezza che il Signore è proprio lì, in mezzo a tutto questo, e nasce proprio lì, per rinnovare la promessa della Salvezza attraverso l’amore di un Figlio, di una coppia, di una famiglia. Vedere questo miracolo fa “glorificare e lodare Dio”, fa annunciare al Mondo “quanto del Bambino ci è stato detto”, fa “custodire e meditare tutte queste cose nel cuore”.
Il Natale ha un carattere “appassionato”. Il Dio-Uomo, piccolo e indifeso nella grotta di Betlemme, rimanda già al mistero pasquale della sua consumazione, morte e risurrezione, mistero che ha aperto per noi le porte del cielo. Le icone orientali, proprio per ricordare questo mistero, collocano il Neonato in una mangiatoia che è, in realtà, un sepolcro. Non c’era altra strada possibile per arrivarci: la divinizzazione dell’umano nella trascendenza doveva passare necessariamente per l’umanizzazione del Divino nell’immanenza. “Colui per mezzo del quale l’uomo è stato fatto non aveva bisogno di diventare uomo; mentre noi avevamo la necessità che Dio diventasse uomo e abitasse in noi, che assumendo l’umanità vivesse dentro di noi” (Sant’Ilario di Poitiers).
Il segno “visivo” di questo abbassamento divino è la stalla del Presepio, grotta per la custodia degli animali, ma anche luogo in cui la Madre di Dio partorisce Gesù. Anche noi, nella grotta della nostra coscienza, custodiamo tratti che ci accomunano ai i nostri fratelli animali, questo è naturale, è creaturale, ma non può essere una scusa per non accogliere Gesù. Però, anche chi non riconosce in se la propria creaturalità animale, magari sublimandola in un narcisismo spirituale autoreferente si allontana dalla salvezza di Dio, che, invece, vuole discendere ed incarnarsi lì dove siamo e come siamo.
Si dice “dalle stalle alle stelle” per indicare un cammino di perfezionamento e, anche noi dalla stalla di Betlemme guardiamo, de-siderandola, alla stella dei Magi: “Abbiamo visto sorgere una stella” (Mt 2, 2). Se la stalla è la meta della ricerca divina, la stella è la meta della ricerca umana. Quanto sono imperscrutabili i disegni di Dio. Ogni celebrazione natalizia ha questi due movimenti: il primo è quello del Signore del tempo e dello spazio che nasce nell’intreccio spazio-temporale di una storia; il secondo è quello dell’uomo che, dalla sua storia, aspira a ri-nascere nell’eternità. La stella, tanto de-siderata, diventa il “sacramento” di questa possibilità d’incontro con Dio per abitare nelle sue dimore eterne.
È con la solennità dell’Epifania che emerge tutta la complessità del mistero celebrato in questo tempo della Manifestazione (Avvento+Natale). Se finora la liturgia della Parola ha insistito sull’iniziativa di Dio, adesso, grazie all’impresa dei Magi, cogliamo l’invito a metterci in cammino anche noi. I Magi sono coloro che sanno interrogare, sanno vedere oltre, sanno usare la sottile e misteriosa logica dei simboli (oro, incenso e mirra), sanno allargare l’orizzonte ristretto della religione del tempo.
Impariamo dai Magi, cercatori di Dio, come sostenere sempre l’impresa della fede, evitando di trasformare le nostre comunità in ghetti del sacro e aprendo il nostro cuore al desiderio stesso di Dio: che tutti gli uomini siano salvi. Il mistero dell’Epifania ci abilita ad essere, come Comunità dei Christifideles, manifestazione di Dio e ci impegna a vivere con rinnovato slancio la nostra vocazione universale e il nostro impegno missionario. “Cerchiamo dunque con l’animo di chi sta per trovare e troviamo con l’animo di chi sta per cercare”, come scrive Sant’Agostino nel suo De Trinitate.
Che il Natale ci insegni, nella nostra vita e di fronte a ogni vita, soprattutto le più indifese, il silenzio adorante e lo stupore che si fa preghiera, custodia, donazione.
Indice dei podcast trasmessi [QUI]

Foto di copertina: Spinello Aretino, Natività, 1410 circa, tempera su tavola, 29,3×43,9 cm, The Courtauld Gallery, London.
Si pensa che il pannello sia uno degli unici due noti sopravvissuti di una rara pala doppia faccia, che era stata commissionata per la chiesa francescana di Città di Castello.
La rappresentazione di Spinello Aretino di questa scena della Natività è particolarmente tenera. La Vergine Maria in contemplazione, San Giuseppe meditabondo: “Veramente tu sei un Dio misterioso!”, mentre due ancelle lavano il Bambino. Dietro di loro un bue e un asino sguardano fuori dalla loro scuderia. Sopra, gli angeli annunciano la nascita di Cristo ai pastori che possono essere visti nelle rocce a destra.
Soltanto la contemplazione può semplificare la nostra preghiera per arrivare a constatare la profondità della scena e del segno che ci è dato. Il Padre, il solo che conosce il Figlio, ci conceda di riconoscerlo affinché l’amiamo e lo imitiamo. Nessun apparato esteriore, nessuna considerazione, nel villaggio tutto è indifferente. Solo alcuni pastori, degli emarginati dalla società. E tutto questo è voluto: “Egli ha scelto la povertà, la nudità. Ha disprezzato la considerazione degli uomini, quella che proviene dalla ricchezza, dallo splendore, dalla condizione sociale”. Nessun apparato, nessuno splendore esteriore. Eppure egli è il Verbo che si è fatto carne, la luce rivestita di un corpo. Egli si trova nel mondo che egli stesso continuamente crea, ma vi è nascosto. Perché vuole apparirci solo di nascosto? Egli fino ad allora era, secondo l’espressione di Nicolas Cabasilas, un re in esilio, uno straniero senza città, ed eccolo che fa ritorno alla sua dimora. Perché la terra, prima di essere la terra degli uomini, è la terra di Dio. E, ritornando, ritrova questa terra creata da lui e per lui. “Dio si è fatto portatore di carne perché l’uomo possa divenire portatore di Spirito”, dice Atanasio di Alessandria. “Il suo amore per me ha umiliato la sua grandezza. Si è fatto simile a me perché io lo accolga. Si è fatto simile a me perché io lo rivesta” (Cantico di Salomone). Per capire, dobbiamo ascoltare lui che ci dice: “Per toccarmi, lasciate i vostri bisturi… Per vedermi, lasciate i vostri sistemi di televisione… Per sentire le pulsazioni del divino nel mondo, non prendete strumenti di precisione… Per leggere le Scritture, lasciate la critica… Per gustarmi, lasciate la vostra sensibilità…” (Pierre Mounier). Ma crediamo e adoriamo.