Podcast 2-14 – 27 ottobre 2024 – XXX Domenica del Tempo Ordinario: “Rabbunì, che io veda di nuovo! Coraggio, alzati, Gesù ti chiama!”
«Il salvatore nostro Cristo Gesù ha vinto la morte e ha fatto risplendere la vita per mezzo del Vangelo» (Cf. 2Tm 1,10)
L’evangelista Marco ci presenta (Mc 10,46-52) le azioni e le parole di Gesù durante il suo viaggio a Gerusalemme. Viaggio sicuramente topografico, ma anche e soprattutto simbolico. Questa strada che Gesù percorre con entusiasmo – “Gesù li precedeva” – e dove i discepoli lo seguono con diffidenza o inquietudine – “essi erano spaventati, e coloro che seguivano erano anche timorosi” (Mc 10, 32) – qui arriva praticamente al termine, all’ultima tappa, da Gerico a Gerusalemme.
E proprio qui, oggi, incontriamo un mendicante cieco, talmente povero che ha come unica proprietà un mantello. Anche il nome non è suo: è un patronimico, Bartimeo, Figlio di Timeo. E attorno a lui c’è soltanto il rigetto: “Molti lo sgridavano per farlo tacere”. Gesù chiama il cieco, ascolta la sua preghiera, e la esaudisce. Anche oggi, qui, tra noi riuniti nel nome del Signore, “ci sono il cieco e lo zoppo” di cui ci parla la prima lettura (Ger 31,7-9) ed è per questo che le azioni di Gesù, che ci vengono raccontate, devono renderci ancora più pieni di fede, speranza ed amore.
È nel momento in cui sta per terminare il viaggio del Messia verso Gerusalemme, che il mendicante cieco celebra Gesù e lo riconosce come “Figlio di Davide”, e, riacquistata la vista e “segue Gesù per la strada”. È un simbolo, un invito. Chiediamo al Signore che ci accordi la luce della fede e ci dia vigore, affinché lo seguiamo come il cieco di Gerico, fino a che non avremo raggiunto la Gerusalemme eterna.
Questo episodio è narrato dai tre Sinottici (Mt 20, 29-34, Mc 10,46-52 e Lc 18,35-43), ma solo Matteo parla di due ciechi, cosa probabile perché spesso due ciechi andavano insieme per aiutarsi l’un l’altro. Marco, con Luca, parla di uno solo, probabilmente perché l’unico conosciuto nell’ambiente per cui scrive o da cui ha attinto la notizia.
Con la guarigione di Bartimeo si conclude la sezione centrale del Vangelo di Marco (8,27-10,52). Anche la sezione precedente (6,1-8, 26) detta del “pane”, perché contiene le due moltiplicazioni ed è strutturata attorno al pane, termina con la guarigione di un cieco a Betsaida (8,22-26), il quale vede progressivamente e ha bisogno di illuminazione, come i discepoli, che hanno occhi e non vedono (8,17). Questo nuovo miracolo, che è l’ultimo presentato da Marco, va letto in profondità: il cieco vede fisicamente, ma ancor più spiritualmente.
Qui abbiamo un miracolo assai superiore a quello fisico della vista riacquistata, abbiamo un’illuminazione che porta a una sequela vera senza più le incomprensioni degli apostoli (8,32 e 9,32), il loro spavento (10,32), la loro brama di dominare (9,34), l’ingenuo arrivismo di Giacomo e Giovanni. L’episodio, che è uno dei più vivaci e riusciti di Marco, fa da cerniera tra la sezione del cammino verso la croce e la sezione della rivelazione definitiva e della morte e risurrezione.
Tutto l’episodio è un vero cammino di fede: Gesù passa, il cieco inizia a gridare, invocandolo come “Figlio di David”, il titolo popolare del Messia, che in Marco compare ora per la prima volta. Nel suo cammino il cieco riconosce Gesù come l’Unto di Dio, il Liberatore. Da questo momento (10,46) Gesù accetta che lo si chiami “Figlio di David” e lo si proclami Messia. I suoi sanno che tipo di Messia egli incarna, il servo sofferente, e non dovrebbero esserci più equivoci, almeno per loro. Chi vuol seguirlo sa che lo deve fare sulla via della croce.
Nella vivacità del racconto che segue si possono trarre validi insegnamenti per la sequela. Nel cammino del cieco per andare da Gesù sorgono ostacoli da parte della folla che vuole eliminare il disturbo. Il cieco non si scoraggia, ma insiste. Gesù si ferma e lo chiama. E lui, per fare presto, non ci pensa due volte e getta addirittura via il suo mantello, la sua unica proprietà, indispensabile per sopravvivere. Alla domanda di Gesù risponde invocandolo col termine “Rabbuni”, ossia Rabbi (maestro), ma in forma affettuosa, come farà la Maddalena, quando riconoscerà Gesù (Gv 20,16). Bartimeo viene “subito” guarito grazie alla fede e poi segue Gesù lungo la strada per Gerusalemme. Il termine scelto da Marco “acolutein” significa sequela sia fisica sia spirituale, come quella degli apostoli.
Gesù, prevedendo che gli animi dei suoi discepoli si sarebbero turbati a causa dei prossimi avvenimenti, predisse loro con molto anticipo sia lo strazio della Passione sia la gloria della sua Risurrezione per confermarli nella loro fede. E siccome i discepoli erano ancora incapaci di comprendere le parole del mistero, il Signore operò un miracolo. Davanti ai loro occhi, un cieco riacquistò la vista, perché coloro che non capivano le parole del mistero per mezzo dei fatti venissero consolidati nella fede. Il cieco è simbolo di tutto il genere umano, estromesso dal paradiso terrestre, che non vede più la luce di Dio. E nondimeno, l’umanità è illuminata dalla presenza del suo Salvatore, sì da poter vedere – almeno nel desiderio – il gaudio della luce interiore, e dirigere così i passi delle buone opere sulla via della vita (Gregorio Magno, Omelie sui Vangeli 2,1-5.8).
Chi perciò ignora lo splendore della luce divina è cieco; ma se già crede nel Redentore, egli siede lungo la via e Gesù aveva detto “io sono la Via” (Gv 14,6); se pur credendo non prega per ricevere la luce, siede lungo la via, ma senza mendicare. Riceverà la luce, invece, chiunque riconosce le tenebre della propria cecità, comprende cosa sia la luce che gli manca e invoca con tutto il cuore: “Gesù, Figlio di David, abbi pietà di me”, senza temere quelli che lo rimproverano affinché tacesse” (Lc 18,38-39) (Gregorio Magno, Omelie sui Vangeli 2,1- 5.8).
Proprio come fece il povero, secondo il racconto evangelico che prosegue: “Ma il cieco con più forza gridava: Figlio di David, abbi pietà di me!” (Lc 18,39). Quello stesso che la turba rimproverava perché tacesse, grida più forte, a significare che tanto più molesto risulta il tumulto dei pensieri carnali, tanto più dobbiamo perseverare nella preghiera. Sì, la folla ci impone di non gridare, perché i fantasmi dei nostri peccati spesso ci molestano anche nel corso della preghiera. Però, allorché insistiamo con vigore nella preghiera, fermiamo nella nostra anima Gesù che passa (Lc 18,40). Ecco, colui che prima passava, ora sta e se Dio si ferma nel cuore, la luce smarrita è riacquistata (Gregorio Magno, Omelie sui Vangeli, 2,1-5.8).
Cristo è “la luce vera che illumina ogni uomo che viene in questo mondo” (Gv 1,9), e illumina “coloro che sono nelle tenebre” (Rm 2,19), come Cristo stesso attesta quando dice ai suoi discepoli: “Voi siete la luce del mondo” (Mt 5,14). E come il sole e la luna illuminano i nostri corpi, così da Cristo sono illuminate le nostre menti. Quantomeno, le illumina se noi non siamo dei ciechi spirituali. In tal caso, occorre anzitutto che coloro che sono ciechi seguano Cristo dicendo e gridando: “Figlio di David, abbi pietà di noi” (Mt 9,27), affinché, dopo aver ottenuto da Cristo stesso la vista, possano successivamente essere del pari irradiati dallo splendore della sua luce (Origene, Omelie sulla Genesi, 1,6-7).
Gesù non solo guarisce il cieco, ma lo salva, infatti gli dice: “Va’, la tua fede ti ha salvato”. Un fatto semplice, ma ricco di significati. Il cieco è povero e costretto a lasciarsi guidare dagli altri, immobile sul ciglio della strada dove passa Gesù. Egli chiama Gesù col titolo messianico di “Figlio di Davide” perché spera da lui un gesto di potenza, un miracolo. La gente vorrebbe farlo tacere, far cessare l’indegno tumulto. Tutto sembra finito nei limiti di un desiderio umano disperato di guarigione e nel disprezzo e indifferenza degli altri. Ma Gesù rompe questo cerchio vizioso e fa chiamare il cieco. Correndo verso Gesù, questo risponde con fede alla chiamata liberatrice del suo Signore.
L’acquisizione della vista significa per lui anche e soprattutto arrivare a credere in Gesù. Infatti il cieco guarito si mise a “seguire” Gesù, cioè divenne suo discepolo sulla via che conduce a Gerusalemme, alla morte e risurrezione. Quel cieco, dunque, nell’intenzione dell’evangelista, diventa simbolo del cristiano che, chiamato dalla parola di Gesù, è guarito – salvato in forza della fede, si fa seguace di Gesù sulla via della morte – risurrezione.
Per quel cieco non basta sapere che Gesù esiste ed è il Messia. Egli fa un passo ulteriore, convinto che quell’Uomo è capace di guarirlo/salvarlo. Cosi giunge al “sapere” della fede, riconoscendo, come dobbiamo fare anche noi, che Gesù è la Divina Presenza, la risposta alle nostre forti invocazioni che superano gli ostacoli posti dal mondo per metterci a tacere, l’Unto di Dio che ci guarisce e ci salva.
È evidente l’intento pedagogico di Marco. Il cieco è l’esempio del credente dalla fede ferma, decisa, che si lascia interpellare e interrogare da Gesù, che mette a nudo la propria povertà e umiliazione e i propri desideri più profondi, e si affida totalmente alla bontà del Signore. Il miracolo è anche la narrazione del cambiamento che l’incontro con Gesù può produrre in una persona: il passaggio dalla condizione di cieco, di escluso, alla condizione di chi si integra con gli altri, vede con chiarezza il senso della propria vita, riconquista fiducia, entusiasmo, gioia. Il cieco del vangelo diventa allora uno specchio in cui scoprire le nostre cecità. Per questo cieco è stata più importante la luce degli occhi, che Gesù gli ha restituito, o l’illuminazione interiore che gli ha fatto vedere in Gesù il Figlio di Davide, il Salvatore, gli ha fatto nascere nel cuore una fede totale, e, guarito, lo ha coinvolto nella sua vita e nella sua sequela?
Noi non siamo ciechi negli occhi del corpo, ma spesso lo siamo nella mente e nel cuore: viviamo i nostri giorni senza vedere la reale, misteriosa, presenza di Dio nel Creato, nella storia e nel mondo; non vediamo la presenza di Gesù Cristo il quale ci ha assicurato: “Sarò con voi tutti i giorni fino alla fine”.
Vediamo con gli occhi la realtà esteriore, ma non vediamo le realtà più profonde nelle quali pure siamo immersi e in cui opera, sempre, lo Spirito Santo di Dio.
Se abbiamo il coraggio di riconoscere che siamo ciechi, il Signore può operare anche in noi il miracolo della illuminazione interiore e darci la forza di chiedergli: “Maestro, che io veda”.
Poi starà ancora a noi, illuminati da questa luce della Fede, mettere in atto le opere della Fede mediante l’Amore, resi incrollabili dalla sicura Speranza che ci viene dalle parole stesse di Gesù quando lo seguiamo sulla sua strada: “In mundo pressuram habebitis, sed confidite ego vici mundum” (Gv 16, 33).
La Tutta Santa Madre di Dio, da noi Costantiniani invocata come Regina delle Vittorie, la Vergine di Pompei, nostra Patrona, con i Santi e le Sante, nostri intercessori ci diano le virtù necessarie per aprire i nostri occhi e vedere nel povero, nell’emarginato, nell’oppresso, nel perseguitato per causa della giustizia, il Cristo di oggi che passa, ci guarisce dalla nostra cecità e ci chiama sulla via della sua sequela.
Indice dei Podcast pubblicati [QUI]
Foto di copertina: Domínikos Theotokópoulos detto El Greco, La guarigione del nato cieco, 1570-76 circa, olio su tela, Galleria Nazionale, Parma.
La guarigione pericolosa. Anche se l’attenzione nel leggere il racconto va naturalmente verso fatti e personaggi che si succedono incalzanti e che l’evangelista descrive peraltro in modo molto dettagliato, un posto sicuramente non secondario rivestono le reazioni scaturite da quel miracolo e che il pittore El Greco fissa in modo suggestivo nella sua tela rinascimentale.
Attorno al Cristo guaritore, raffigurato sul lato sinistro della scena insieme al miracolato, ci sono tutti i protagonisti fotografati dall’artista nel particolare atteggiamento che li identifica.
Sulla sinistra è il gruppo dei discepoli, completamente “estranei” a tutta la vicenda perché troppo preoccupati a discutere sulle possibili colpe commesse dal cieco o dai suoi genitori (era infatti credenza degli Ebrei associare una malattia ad un peccato).
Sulla destra il gruppo dei Farisei, scandalizzati e “increduli” alla vista del miracolo (avevano messo in dubbio la stessa cecità dell’uomo).
In basso i genitori del cieco, meravigliati di fronte al gesto di Gesù, ma nello stesso tempo “distanti” per non compromettersi con quello che sta accadendo.
Infine il cieco stesso, mostrato in ginocchio mentre è preso dolcemente per mano da Gesù che lo guarda intensamente, con un volto luminoso, mentre gli tocca gli occhi.
Sullo sfondo la città è chiaramente lontana, grazie allo sfondamento prospettico che si apre dietro al miracolo, come a dire che Gesù non vuole operare in modo spettacolare, ma “appartato”, nascosto agli occhi della gente.
Se un cieco dalla nascita torna a rivedere perché tanta ostinazione? Perché tanto accanimento? Quale “male” poteva mai portare quel bene immenso che, sovvertendo ogni legge naturale, aveva restituito vita e felicità ad un uomo destinato ad essere per sempre maledetto?
Evidentemente per i Farisei l’osservanza della Legge era più importante della vita stessa degli uomini, senza considerare che a fare il miracolo era stato proprio Gesù, un uomo, un peccatore. Ai Farisei infatti non interessava tanto che un povero cieco tornasse a riacquistare la vista, ma piuttosto chi lo aveva guarito e come era stato guarito. Il caso si sarebbe diffuso e molti avrebbero creduto in Cristo sminuendo l’autorità dei Farisei con i quali Gesù aveva un conflitto aperto. Troppo scomodo da accettare, troppo pericoloso per chi in quel tempo deteneva tutto il potere religioso. Inizia l’interrogatorio, il processo su Gesù raggiunge un culmine e il dibattito dei testimoni convocati si fa serrato. Di fronte alla certezza di un miracolo si nega l’evidenza e ci si appella a questione giuridiche, rifiutando di vedere il passaggio della grazia.
Alla fine il giovane miracolato che ha il coraggio di confessare la verità dei fatti, viene cacciato dal tempio, espulso dalla chiesa di allora, abbandonato da tutti. Gesù, saputolo, lo incontra e gli dice: Tu credi nel Figlio dell’uomo? Ed egli rispose: Io credo, Signore e gli si prostrò innanzi.
Così al miracolo fisico si aggiunge il vero grande miracolo, perché il cieco “illuminato” è ora illuminato anche nell’anima. Ora vuole conoscere Colui che lo ha guarito, vuole incontrarlo fino in fondo: Io credo, Signore. La sua vita è ormai profondamente, radicalmente cambiata, rinnovata fuori e dentro, nel corpo e nello spirito; diversamente da quella dei Farisei che invece stanno fermi, non cambiano, perché credono di sapere già tutto, e quindi non si lasciano interrogare e mettere in discussione dai segni misteriosi in cui Dio si manifesta. Gesù non corrisponde affatto all’idea che si sono fatti di Dio! Ma proprio essi, che credono di sapere e di vedere, finiscono per non vedere, mentre la gloria di Dio illumina gli occhi, il cuore e la vita di colui che una volta era stato cieco.
«Io sono venuto in questo mondo per giudicare, perché coloro che non vedono vedano e quelli che vedono diventino ciechi» (Gv 9,39).
(A cura di Fabio Massimo Del Sole e Patrizia Pelorosso. Fonte di riferimento: Barbara Spinelli, Il soffio del mite).