
La Celebrazione Eucaristica è stata presieduta dal Parroco Don Domenico De Risi, Canonico del Capitolo della cattedrale di Nola, concelebrante il Parroco di Santa Croce in San Nicola in Marigliano, Mons. Sebastiano Bonavolontà, Cappellano di Merito con Placca d’Argento. Ha assolto la funzione di Cerimoniere, Giuseppe Russo, Cavaliere di Merito.

All’inizio del Sacro Rito, Don De Risi ha ricordato, che in particolar modo veniva fatta memoria dei dolorosi fatti accaduti il 13 febbraio 1861 con la Capitolazione della Fortezza di Gaeta; dei numerosi caduti militari e civili sotto i cannoneggiamenti dei fratelli Italiani comandati dal Generale Enrico Cialdini; delle virtù umane e spirituali delle eroiche figure di S. M. il Re Francesco II di Borbone, oggi Servo di Dio, e della sua consorte, S.M. la Regina Maria Sofia von Wittelsbach, come esempio e valori da seguire a tutti gli appartenenti alla Sacra Milizia; del devastante incendio che distrusse il cinquecentesco duomo di Nola nella notte tra il 12 e il 13 febbraio 1861, ad opera di facinorosi anticlericali giacobini e massoni per motivi politici, privando le future generazioni di quello splendido gioiello rinascimentale. Il duomo fu prima saccheggiato e poi incendiato, cospargendo le travi del soffitto con pece e bitume, quando la capitolazione della fortezza di Gaeta, ultimo baluardo del Regno delle due Sicilie, era già concordata e firmata e ne era giunta la notizia anche a Nola.

La Prima Lettura (Gn 2,18-25 – La condusse all’uomo. I due saranno un’unica carne) ed il Salmo Responsoriale (Sal 127 (128) – Beato chi teme il Signore) sono stati letti dal Responsabile della Comunicazione ad interim della Delegazione, Antonio De Stefano, Cavaliere di Merito con Placca d’Argento.

Il Vangelo (Mc 7,24-30 – I cagnolini sotto la tavola mangiano le briciole dei figli) è stato proclamato da Mons. Sebastiano Bonavolontà. Di seguito riportiamo il testo integrale dell’omelia tenuta da Don Domenico De Risi.
Carissimi fratelli e sorelle, carissimi Cavalieri del Sacro Militare Ordine Costantiniano di San Giorgio.
Anche quest’anno un dovere di pietà ci vede riuniti per suffragare i caduti di Gaeta, la città in cui il 13 febbraio 1861 si concluse il sanguinoso assedio portato avanti dal Generale Enrico Cialdini e che decretò, praticamente, la fine del Regno delle Due Sicilie. In questo giorno il duomo di Nola fu bruciato ad opera di ignoti: quasi certamente liberali e massoni che, forse, volevano celebrare, con questo gesto infame, la fine dei Borbone di Napoli.
La neonata Italia unita si nutriva dell’odio più bieco nei confronti della religione Cattolica. Già la legge promulgata nel Regno Sardo il 29 maggio 1855 sulla soppressione delle corporazioni religiose, non dedite alla predicazione, all’istruzione e alla cura dei malati, aveva privato di personalità giuridica ben 17 congregazioni maschili e 13 femminili, e portò alla chiusura di 235 case religiose, coinvolgendo un totale di 5.489 tra religiosi e religiose. Susseguentemente, nell’ex Regno di Napoli, le due leggi eversive del 1866 e 1867 generarono notevoli guadagni all’erario e permisero la redistribuzione di un’enorme quantità di beni immobili, essendo stati soppressi ben 117 monasteri su un totale generale di 1322 soppressi in tutto il Regno d’Italia.
L’occasione che ci vede riuniti è per tutti un momento di seria riflessione sul valore della pace, ancor oggi messa in pericolo dai conflitti, in modo particolare dalla guerra tra Russia e Ucraina che dura da tre anni e dalla guerra di Gaza che ne dura da due.
Non è in nostro potere far cessare queste guerre, ma è in nostro potere pregare perché il Signore illumini coloro i quali reggono i destini di quei popoli, così come è un nostro imprescindibile dovere assumere uno stile di vita improntato alla pace, al dialogo, alla mitezza: «Beati i miti, perché erediteranno la terra» (Mt 5,5). La beatitudine proclamata da Gesù nel Discorso della Montagna risuona in tutta la sua terribile verità: solo la mitezza vince! La superbia e la prepotenza, infatti, sono micidiali armi di distruzione. Purtroppo, anche i credenti, forse senza volerlo direttamente, ben spesso assumono nel loro modo di agire atteggiamenti di micro o macro violenza che non fanno onore a Gesù, principe della pace, martire della non violenza e banditore dell’evangelo della carità fraterna al di là delle differenze di religione o di etnia.
Nella attuale degradazione culturale, sociale, politica, morale, che non risparmia nemmeno i recessi più sacri della religione cattolica, in quest’epoca di divisioni e contrasti talora fatti nascere artatamente, il vostro Sacro Militare Ordine Costantiniano di San Giorgio rappresenta una refrigerante oasi di urbanità, di gentilezza, di mitezza, di dialogo, di nobiltà d’animo, un’oasi in cui i valori umani più alti fanno da imprescindibile fondamento a una sempre più rigogliosa fioritura di valori evangelici, vissuti con consapevole perseveranza.
E a proposito di tensioni religiose, mi sembra che l’episodio evangelico di oggi, possa leggersi anche come un esempio di superamento di tali divisioni. L’episodio è raccontato da Marco e Matteo (15, 21-28), ma non da Luca (il quale cancella dalla sua fonte tutte le puntate di Gesù fuori della Palestina, fedele al suo programma teologico secondo il quale il messaggio evangelico oltrepasserà i confini della Palestina solo dopo la morte e risurrezione. E infatti a questo tema egli dedica il libro degli Atti degli Apostoli). Rispetto al racconto marciano (quello che abbiamo letto oggi), quello di Matteo è più articolato e drammatico.
Gesù si trova nella regione di Tiro e Sidone, città pagane sulla costa della Palestina, ricordate già nel VI secolo dal profeta Gioele (4,4-7), all’indomani del ritorno in Palestina dall’esilio babilonese, come città nemiche di Israele.
Una donna del luogo, parlante la lingua greca, una donna pagana, lo si noti, lo prega di scacciare il demonio dalla figlia. Importante è il breve dialogo tra questa desolata madre e Gesù (un dialogo dove Gesù probabilmente ha parlato greco: il greco era la lingua del bacino del Mediterraneo, mentre il latino era adottato soltanto dalle autorità romane per gli scambi politici o amministrativi. E infatti, le uniche iscrizioni in latino sono state trovate a Cesarea Marittima, dove risiedeva il governatore, e a Gerusalemme): «Ed egli le rispondeva: Lascia prima che si sazino i figli, perché non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini. Ma lei gli replicò: “Signore, anche i cagnolini sotto la tavola mangiano le briciole dei figli”. Allora le disse: “Per questa tua parola, va’: il demonio è uscito da tua figlia”. Tornata a casa sua, trovò la bambina coricata sul letto e il demonio se n’era andato».
Gli Ebrei devono avere la precedenza nel ministero di Gesù: ecco il senso delle parole: «Lascia prima che si sazino i figli, perché non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini». È il caso di ricordare che gli Ebrei gratificavano i pagani con l’appellativo di “cani”. Nel passo evangelico, però, i toni sono più sfumati, perché si parla di kynarìois (cagnolini), ossia i cani che si tenevano in casa, e che mangiavano quanto cadeva dalla tavola dei padroni.
La replica della donna Siro-Fenicia (così chiamata perché la Fenicia, attuale Libano, faceva parte della provincia romana della Siria), ha la virtus, per così dire, di far cambiare parere a Gesù: «Signore, anche i cagnolini sotto la tavola mangiano le briciole dei figli». È bellissima nella sua vaghezza di intonazione: potrebbe essere stata detta con sottile arguzia, con una logica stringente. Forse. Ma quella donna aveva il cuore oppresso dal dolore a causa della figlioletta (thygàtrion: un altro diminutivo), posseduta da uno spirito immondo, sicché è più verosimile che l’intonazione sia stata, se non disperata, sicuramente dolente. È il dolore di una mamma che vede la sua figlia preda di una forza oscura…
E la madre ha vinto: «”Per questa tua parola, va’: il demonio è uscito da tua figlia”. Tornata a casa sua, trovò la bambina coricata sul letto e il demonio se n’era andato». Notiamo il particolare “coricata sul letto”, e dunque non più preda dei spasmi generalmente provocati dallo spirito impuro, come si legge in altre pagine del Vangelo.
Le ragioni del cuore hanno avuto la meglio anche su quel piano teologico secondo cui le “pecore perdute della casa d’Israele” debbono avere la precedenza sui pagani (cfr Mt 10,6). La donna pagana, che, in quanto tale, apparteneva ai cosiddetti “cani”, ha vinto, perché ha avuto fede: anzi, una grande fede in Gesù: tanto grande da essere certa che il miracolo sarebbe potuto avvenire anche… a distanza (come la guarigione del servo del centurione, narrata da Matteo e da Luca). La donna pagana è sicura che Gesù di Nazaret potrà compiere un miracolo, mentre i correligionari di Cristo, e non una volta, di fronte all’evidenza di miracoli da lui operati si sono visti sfidati, ripagandolo con la calunnia e, addirittura, con la taccia di indemoniato!
Tornando a Tiro e Sidone, le città inique, quelle che hanno fatto tanto male a Israele, anche per esse ci sarà un rovesciamento di posizioni: sentiamo Matteo (11, 20-22): «Allora si mise a rimproverare le città nelle quali era avvenuta la maggior parte dei suoi prodigi, perché non si erano convertite: “Guai a te, Corazìn! Guai a te, Betsàida! Perché, se a Tiro e a Sidone fossero avvenuti i prodigi che ci sono stati in mezzo a voi, già da tempo esse, vestite di sacco e cosparse di cenere, si sarebbero convertite. Ebbene, io vi dico: nel giorno del giudizio, Tiro e Sidone saranno trattate meno duramente di voi».
Per Gesù ciò che conta è la fede, vale a dire la volontà dell’uomo di stabilire una relazione con lui, una relazione salvante. Purtroppo, dalla lettura dei Vangeli e degli Atti degli Apostoli si ricava che dopo una prima apertura degli Ebrei alla figura e alla missione di Gesù, essi se ne sono volontariamente allontanati (Paolo parla di un “velo” steso sui loro occhi), mentre proprio i pagani, i… “cani”, si sono dimostrati sensibili all’appello di Cristo e sono giunti alla fede. Ricordiamo le parole di Paolo, prigioniero a Roma, rivolte ai correligionari Ebrei: «Sia dunque noto a voi che questa salvezza di Dio viene ora rivolta ai pagani ed essi l’ascolteranno» (At 28,28).
Quei pagani siamo noi, noi che non siamo Ebrei, e, differentemente da loro, abbiamo ascoltato la Parola della salvezza. Facciamole onore!

Al termine della Santa Messa, il Responsabile della Comunicazione ad interim della Delegazione, Antonio De Stefano, Cavaliere di Merito con Placca d’Argento, ha espresso parole di vivo ringraziamento a Don Domenico De Risi, per la calorosa accoglienza riservata, e a Mons. Sebastiano Bonavolontà, per la sua presenza e costante vicinanza; al Segretario Generale ad interim della Delegazione, il Nob. Antonio Masselli, Cavaliere de Jure Sanguinis, per la sua presenza, anche in rappresentanza del Delegato; infine ai Cavalieri, Postulanti ed amici dell’Ordine Costantiniano, intervenuti anche da luoghi lontani, come Avellino, Benevento, Caserta, Napoli e Salerno.

Prima della Benedizione Conclusiva, il Segretario Generale ad interim ha recitato la Preghiera del Cavaliere Costantiniano.



A guidare la rappresentanza della Delegazione di Napoli e Campania, in vece del Delegato, il Conte Don Gianluigi Gaetani dell’Aquila d’Aragona dei Duchi di Laurenzana, Cavaliere di Giustizia, il Segretario Generale ad interim, Nob. Antonio Masselli, Cavaliere de Jure Sanguinis, ed il Responsabile della Comunicazione ad interim, Antonio De Stefano, Cavaliere di Merito con Placca d’Argento, con il Cavaliere di Merito con Placca d’Argento Gesualdo Marotta; i Cavalieri di Merito Francesco Saverio Barbato Romano, Antonio Caputo, Raffaele Grilletto, Carlo Iavazzo, Valerio Massimo Miletti e Giuseppe Russo; i Cavalieri di Ufficio Paolo Carbone, Nicola Carifi, Antonino Giunta, Valerio Stefano Sacco, Luigi Scarano, Nicola Scarinzi, Antonio Sommese e Michele Todino; i Postulanti Mauro Barbarsi, Silvio Beducci, Angelo De Luca, Antonio Iannucci, Gennaro Napoletano, Raffaele Napolitano e Luigi Tullio; i familiari ed amici della Sacra Milizia, tra cui Paolino Cantalupo e Biagio Trocchia.

Seconda fila da sinistra: Michele Todino, Francesco Saverio Barbato Romano, Gesualdo Marotta, Carlo Iavazzo, Valerio Massimo Miletti.
Terza fila da sinistra: Nicola Carifi, Luigi Scarano, Nicola Scarinzi, Antonino Giunta, Antonio Sommese, Valerio Stefano Sacco, Paolo carbone, Raffaele Napolitano, Silvio Beducci.
Quarta fila da sinistra: Angelo de Luca, Gennaro Napolitano, Antonio Iannucci, Mauro Barbarisi.
Terminata la Celebrazione Eucaristica, la serata è proseguita in un clima di fraternità e convivialità, consolidando i legami di amicizia e rispetto reciproco, che sono alla base dell’appartenenza all’Ordine Costantiniano, con un’agape fraterna presso il rinomato Ristorante-Pizzeria Gallery. Qui gli ospiti, in un ambiente elegante ed accogliente, hanno gustato prelibatezze culinarie.


Il servizio fotografico è a cura del Cavaliere Valerio Massimo Miletti e del Postulante Luigi Tullio.
L’assedio e la caduta di Gaeta
L’assedio di Gaeta tra il 13 novembre 1860 ed il 13 febbraio 1861, di cui 75 giorni trascorsi sotto il fuoco piemontese, fu uno degli ultimi fatti d’armi delle operazioni di conquista dell’Italia meridionale nel corso del Risorgimento italiano. La Città di Gaeta, al confine tra il Regno delle Due Sicilie e lo Stato Pontificio, era difesa dai soldati dell’esercito delle Due Sicilie, ivi arroccati dopo la Spedizione dei Mille e l’intervento della Regia Armata Sarda. La caduta di Gaeta, insieme con la successiva presa di Messina e di Civitella del Tronto, portò alla proclamazione del Regno d’Italia.
Tra tutti gli assedi subiti da Gaeta nella sua millenaria storia di fortezza militare fin dall’846, questo fu il più ingente per i mezzi militari impegnati. Il numero ufficiale delle vittime di questo assedio: tra le file piemontesi 46 morti e 321 feriti, tra le file borboniche 826 morti, 569 feriti e 200 dispersi. Purtroppo non sono stati registrati ufficialmente i morti, feriti e dispersi tra la popolazione civile che pure patì l’assedio.
La storia della tragica resistenza della Fortezza di Gaeta, assediata dallo spietato Generale Enrico Cialdini, Comandante del corpo di assedio piemontese, è nota, ed esistono pubblicazioni valide che ne forniscono il racconto. L’assedio fu condotto con tale asprezza, che occorre ricordare che Cialdini ebbe l’ardire di far bombardare perfino la stanza dei sovrani, evidentemente nella speranza di ucciderli.

Dal 15 dicembre 1860 i bombardamenti su Gaeta si fecero più insistenti e cruenti, arrivando a colpire non solo obiettivi militari, ma anche obiettivi civili, come ospedali, chiese e case civili, allo scopo di abbattere il morale degli assediati e facilitare la caduta della città. Un racconto leggendario dell’epoca, diffuso inizialmente dal giornalista Carlo Garnier, narrava che dopo il 15 dicembre, con l’inasprirsi dei bombardamenti, la Regina Maria Sofia incominciò a vedersi continuamente sui bastioni della città, prodigandosi a soccorrere i feriti e a dare conforto ai soldati, venendo soprannominata “eroina di Gaeta”.
Ci limitiamo a riportare le commoventi parole di Roberto Martucci, che descrive il tragico clima in cui avvenne l’assedio, specie gli ultimi giorni, e soprattutto descrive lo stato d’animo di chi stava perdendo – tra la fame e la pestilenza – ma sapendo di essere vittima incolpevole di un’aggressione da nessuno desiderata ed eroico difensore non di un Regno, ma di una civiltà plurisecolare, e di chi stava vincendo fra le risa, ma era un riso di amaro sapore:
«Il 5 febbraio 1861, un proiettile centrò la polveriera Sant’Antonio, provocando circa cento morti e seppellendo, sotto le macerie, centinaia di soldati vivi. “Il nemico – scrisse Pietro Calà d’Ulloa – faceva un sacrificio di vittime umane agli dei degli inferi; un’ultima esplosione lanciò in aria per poi precipitarli in mare soldati e ufficiali; gli assedianti, a Mola, batterono le mani come a uno spettacolo”» [Pietro Cala d’Ulloa, Lettres d’un ministre émigré, Marseille, 1870, p. 80].
Dopo una breve tregua per estrarre i feriti dalle rovine, il Generale Cialdini rifiutò una proroga che avrebbe consentito di soccorrere le altre vittime ancora vive; il generale sardo volle quindi riprendere il bombardamento, offrendo al tempo stesso una resa senza condizioni alla stremata guarnigione napoletana. Di fronte alla inutilità di un’ulteriore resistenza, S.M. Francesco II autorizzò il Governatore di Gaeta – che era quello stesso Generale Giosué Ritucci che aveva diretto la sfortunata controffensiva sul Volturno – a trattare la Capitolazione. Era l’11 febbraio e per due giorni si protrassero i colloqui senza che il Generale Cialdini cessasse di rovesciare sulla sventurata fortezza una valanga di fuoco; ne aveva anzi approfittato per far entrare in azione altre due micidiali batterie di cannoni a canna rigata. Visto che la resa era sicura, quell’ulteriore dispiegamento di artiglieria d’assedio era mortalmente inutile. A meno che non ci si trovasse di fronte a quella sindrome magistralmente descritta dal romanziere francese Jules Verne in Dalla terra alla luna, quando gli affranti ingegneri e periti balistici, soci del “Gun club” di Baltimora, appresero con dolore ineguagliato che la fine della Guerra di Secessione impediva di sperimentare l’efficacia dei proiettili dei loro cannoni sulla carne confederata.

13 febbraio 1861
Così capitolarono
i valorosi difensori del Regno delle Due Sicilie
della Piazzaforte di Gaeta
«Gli assedianti hanno lanciato circa 60.000 bombe dal 10 [febbraio] sera fin a questo momento [13 febbraio]. 60.000 bombe in tre giorni, sessantamila bombe tra la domanda di capitolazione e la sua firma. Le vittime di queste 60.000 bombe grideranno vendetta eterna contro Cialdini (…) Ecco una Fortezza il cui assedio finirà senza che si sia aperta una trincea, senza che l’Assediante si sia avvicinato a meno di 1500 metri! (…) Cialdini fa colazione, pranzo e cena e dorme pacificamente a Castellone, nella Villa Real di Mola, a cinque chilometri da Gaeta. (…) Sulle tombe di tanti bravi, che hanno sofferto con una inalterabile fermezza e che sono morti con magnanima semplicità, sulle rovine di una città che si è difesa cento giorni con risorse così esigue, con mezzi insufficienti, io straniero, semplice testimone, ma non testimone insensibile, affermo che l’assedio di Gaeta sarà una delle più belle pagine della storia contemporanea. La gloria non sarà per i vincitori, ma per i vinti» [Charles Garnier, Diario dell’Assedio di Gaeta 1860-1861, Brussel 1861, trad, it. Editoriale il Giglio 2022].
«Venne finalmente stabilito in massima che da oggi in poi [11 febbraio] si raddoppierebbe il fuoco delle nostre artiglierie, né si cesserebbero fino a conchiusa capitolazione (…) al toccare della mezzanotte dalla batteria italiane erano partiti 4.397 colpi e da quelle dei borbonici 1.493 (…) i feriti nel campo italiano erano stati 4, ed in Gaeta 9 i morti e 7 i feriti. Dal tifo erano stati colti 48 e condotti in fin di vita 7» [Federico Carandini, Ufficiale dello Stato Maggiore piemontese, L’ Assedio di Gaeta nel 1860-61, Torino 1874].

Fu così che a Gaeta, alle tre del pomeriggio del 13 febbraio, mentre i parlamentari napoletani e sardi stavano discutendo gli ultimi dettagli della Capitolazione, saltò in aria la polveriera della batteria Transilvania con le sue diciotto tonnellate di esplosivi. Immediatamente, le batterie d’assedio piemontesi concentrarono il fuoco sulle macerie per impedire i soccorsi, mitragliando i barellieri. Morirono inutilmente due ufficiali, cinquanta soldati e l’intera famiglia del guardiano del bastione. L’ultimo era il più giovane di tutti, l’Alfiere Carlo Giordano, 17 anni non ancora compiuti, allievo della Nunziatella. I plenipotenziari borbonici, che stavano trattando la resa nel Quartier Generale di Cialdini, trattennero a stento le lacrime, mentre i loro ospiti applaudivano fragorosamente contravvenendo simultaneamente alle regole dell’ospitalità e alle leggi non scritte dell’onore militare.
Il 13 febbraio 1861, nella villa reale dei Borbone (già villa Caposele, attualmente Villa Rubino, a Formia) venne firmato l’armistizio. Alle ore 18.15 le artiglierie di entrambi gli schieramenti cessarono le ostilità, entrando in vigore il cessate il fuoco a seguito della firma della capitolazione, e dopo la resistenza per oltre tre mesi alle truppe piemontesi, i valorosi difensori del Regno delle Due Sicilie della guarnigione di Gaeta uscirono dalla Piazzaforte con l’onore delle armi.
Cialdini, non ancora soddisfatto, volle anche riuscire sarcastico per umiliare chi aveva avuto il coraggio di resistergli con dignità, e si offrì di fornire con generosità alla coppia sovrana una nave per andare a Roma: ne scelse una che fece ribattezzare “Garibaldi”.

Fra le lacrime dei soldati e degli ufficiali inginocchiati e della popolazione, mentre stringevano le mani a tutti, senza distinzione, fra le lacrime e i sorrisi, LL. MM. Francesco II e Maria Sofia salparono per Roma.
La cittadella di Messina si arrese a Garibaldi dopo due mesi, il 12 marzo e Civitella del Tronto – ultima roccaforte dell’esercito duosiciliano – riuscì a resistere all’esercito piemontese con 530 uomini appartenenti ai diversi corpi (gendarmeria, fanteria di riserva, reali veterani, artiglieria) con 21 cannoni, 2 obici, 2 mortai e 1 colubrina in bronzo del museo, fino al 20 marzo 1861. Dopo due giorni di terrificanti bombardamenti – 7.860 proiettili per 6.500 kg di polvere utilizzata – i Piemontesi riescono ad entrare attraverso una breccia. Finisce il Regno delle Due Sicilie.

La cattedrale di Nola
Il cuore della Diocesi di Nola, la basilica cattedrale dedicata a Santa Maria Assunta in Cielo e ai Santi Felice Vescovo Martire e Paolino, conserva le spoglie di San Paolino trafugate dal complesso paleocristiano di Cimitile tra il IX e X secolo dai longobardi e trasportate prima a Benevento e poi a Roma, ritornate a Nola soltanto nel 1909. Una cappella conserva le spoglie in un’urna bronzea mentre sull’altare maggiore svetta l’Immacolata Concezione fatta in cartapesta secondo l’artigianato tipico della città, famosa a livello internazionale per la festa dei Gigli come molti dettagli in essa presenti, gli angeli reggicero e il soffitto a cassettoni. L’opera è stata realizzata in collaborazione con manovalanza leccese.
La cattedrale sorge in piazza Duomo, dove su lato sinistro è visibile la statua dedicata all’imperatore Augusto legato al territorio nolano, nel punto in cui si costruì la basilica inferiore intorno alla sepoltura del corpo di San Felice Vescovo e Martire, mai ritrovato. La facciata è preceduta da un portico con cinque arcate sorrette da colonne in marmo.
La chiesa collega i due momenti storici, dalla fine del Trecento quando venne costruita per volere del Conte Niccolò Orsini al di sopra delle strutture più antiche relative alla basilica inferiore in cui sono ancora visibili una croce gemmata di V-VI secolo ed un altorilievo con Cristo fra gli apostoli di XIII secolo. Distrutta più volte durante i secoli, è una costruzione moderna, edificata tra il 1869 e gli inizi del Novecento su progetto dell’architetto Nicola Breglia in stile neorinascimentale: essa fu inaugurata nel maggio 1909 con la traslazione delle reliquie di San Paolino.

La nuova costruzione fu necessaria a causa del devastante incendio che avvenne nella notte tra il 12 e il 13 febbraio 1861, ad opera di facinorosi rivoluzionari e massoni. La cattedrale fu prima saccheggiata e poi incendiata, quando la capitolazione della Fortezza di Gaeta era già concordata e firmata, e ne era giunta la notizia anche a Nola. L’incendio doloso distrusse completamente l’antica chiesa gotica; di essa si salvarono soltanto alcuni manufatti, le statue dei santi patroni San Paolino e San Felice, la cappella e la statua dell’Immacolata, e la cappella del Crocifisso.

La cappella del Crocifisso
La cappella del Crocifisso o Cappellone, il coro invernale del Capitolo della cattedrale di Nola, è una delle poche strutture preesistenti, insieme alla cappella dell’Immacolata, sopravvissute all’incendio doloso del 1861. La cappella in stile neoclassico, come tutta la cattedrale ricostruita su progetto dell’Architetto Nicola Breglia agli inizi del novecento, presenta come pala d’altare un Crocifisso circondato dagli Angeli dolenti, opera in stucco dell’artista Salvatore Cepparulo, ed un bellissimo coro in legno, probabilmente opera dello stesso artista.
Foto di copertina: la Bandiera Reale delle Due Sicilie.