Dottrina Sociale della Chiesa – Quarta parte: Economia civile ed economia politica: Antonio Genovesi ed Adam Smith

È stato pubblicato sul canale Speaker dell’Ufficio Stampa della Real Commissione per l’Italia del Sacro Militare Ordine Costantiniano di San Giorgio il quarto Podcast di una serie sulla Dottrina Sociale della Chiesa a cura del Referente per la Formazione della Delegazione di Roma e Città del Vaticano, il Prof. Enzo Cantarano, Cavaliere di Merito con Placca d'Argento. Nel suo impegno per la salvezza di ogni persona, la Chiesa si preoccupa di tutta la famiglia umana e delle sue necessità, compresi gli ambiti materiali e sociali. A tal fine sviluppa, come una bussola, una dottrina sociale per formare le coscienze e aiutare a vivere secondo il Vangelo e la stessa natura umana. «Con tale dottrina, la Chiesa non persegue fini di strutturazione e organizzazione della società, ma di sollecitazione, indirizzo e formazione delle coscienze» (Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, 81). «La Chiesa (…) ha però una missione di verità da compiere, in ogni tempo ed evenienza, per una società a misura dell'uomo, della sua dignità, della sua vocazione» (Caritas in veritate, 9).
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Podcast 2-55 – Dottrina Sociale della Chiesa – Quarta parte: Economia civile ed economia politica: Antonio Genovesi ed Adam Smith

Come già detto nel mio precedente Podcast sulla Enciclica Rerum novarum [QUI] di Papa Leone XIII, di venerata memoria, desidero affrontare un tema formativo molto rilevante: il magistero Cattolico sulla Dottrina Sociale, così come espresso nel Compendio pubblicato dal Pontificio Consiglio per la Giustizia e la Pace.

Prima, però voglio proporre, a mo’ di introduzione concettuale, il pensiero di un precursore, illustre, ma assai poco conosciuto se non dagli addetti ai lavori, di quanto, in materia di economia, possiamo leggere nei documenti di tale Dottrina: Antonio Genovesi. Nato nel 1713, visse ed operò in Campania. Fu sacerdote, teologo, economista, filosofo e primo Ordinario della prima Cattedra al mondo di Economia istituita a Napoli da Carlo di Borbone nel 1754. Nel 1765 diede alle stampe il volume Lezioni di commercio o sia di economia civile, un testo strettamente collegato all’humus culturale di una città considerata una delle capitali dell’Illuminismo europeo. Le sue lezioni ed il testo erano in italiano e non in latino, la lingua accademica di allora. Con quell’importante opera, Genovesi contribuiva a dare i natali a una nuova scienza – l’economia – che ben undici anni dopo avrebbe visto la pubblicazione del celebre saggio di Adam Smith, Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle Nazioni, destinato a orientare gli sviluppi di questa disciplina emergente verso una prospettiva “politica”, in cui il perseguimento del bene comune appariva come la conseguenza spontanea dell’operare della “mano invisibile” di un mercato capace di produrre una somma positiva delle scelte egoistiche degli individui.

Questa visione, che rifletteva la cultura calvinista dello studioso Scozzese, si è imposta nel tempo come paradigmatica, favorendo il fiorire di una ricca letteratura culminata nei modelli dell’economia neoclassica e, più di recente, negli eccessi del neoliberismo. Proprio questi eccessi ci stanno rivelando oggi la fragilità di questa fiducia cieca negli effetti benefici del mercato e nella convinzione che il benessere collettivo possa essere la conseguenza naturale del libero sfogo di tanti atti di egoismo individuale. Si sente sempre più il bisogno di una nuova chiave di lettura dei fenomeni economici, che parta da una diversa concezione antropologica per fondare un modo innovativo di fare economia.

La Dottrina Sociale della Chiesa si è chiaramente espressa, in tempi relativamente recenti, ma anche in questo ambito, il passato sembra offrirci preziose basi di riflessione che trovano proprio nel pensiero di Antonio Genovesi la loro radici più solide. Le intuizioni dello studioso Napoletano ci portano, infatti, verso un nuovo paradigma di economia che trova nell’aggettivo “civile” il suo elemento qualificante, in cui le relazioni fra le persone non sono più basate su logiche meramente atomistiche, cioè assolutamente individualistiche, non controllate né controllabili e competitive, ma vivono di valori profondamente radicati nella tradizione umanistica italiana come la reciprocità, la ricerca consapevole del bene comune, il senso della comunità, la solidarietà, il rispetto per l’ambiente, la tutela dei soggetti più fragili. Il mercato resta il riferimento principale, ma la legittima ricerca del profitto viene contestualizzata in una prospettiva più equilibrata che restituisce centralità alle persone e alla comunità, nella convinzione che il bene dei singoli sia sempre il riflesso di un benessere diffuso. Non si tratta di una visione ingenua e utopistica, ma del recupero di una dimensione più sociale e meno meccanica dell’economia, che appare di grande attualità proprio ora che si stanno scoprendo i limiti connessi alle derive della globalizzazione o della finanziarizzazione del sistema economico.

Di fronte a problemi drammatici come l’incremento della povertà, l’accentuazione delle diseguaglianze, il riscaldamento globale, la devastazione dell’ecosistema, l’esasperazione degli egoismi nazionalisti, localistici e populisti occorre una risposta nuova. E l’economia civile può essere questa risposta. Può esserlo grazie ai processi di elaborazione teorica che, come insegnava Genovesi, stanno finalmente aprendosi a chiavi interpretative alternative rispetto al mainstream e che mettono in discussione i dogmi dell’economia neoclassica.

Ma può esserlo soprattutto grazie all’emergere di esperienze e prassi che di queste nuove prospettive teoriche rappresentano una declinazione concreta e tangibile, come le imprese sociali, il mondo della cooperazione, il terzo settore, la finanza etica, l’economia circolare, ma anche, più generalmente, l’attenzione con cui tutte le aziende guardano a temi un tempo marginali come la sostenibilità o la responsabilità sociale d’impresa. “È legge dell’universo che non si può far la nostra felicità senza far quella degli altri”. Questo è quanto sosteneva Antonio Genovesi! A differenza di Adam Smith, però, che esclude dal mercato qualsiasi relazionalità non strumentale, Genovesi indica proprio il mercato come luogo di mutua assistenza e reciprocità: la peculiarità della sua riflessione consiste nel veicolare un’idea di economia legata ai concetti di pubblica felicità e civilizzazione. Il cardine di tutta la sua riflessione è rappresentato dal principio di relazionalità come costitutivo della persona: “niuno stato umano è da reputarsi più infelice quanto è quello di essere soli, cioè slegati da ogni commercio de nostri simili. È un detto di Aristotele bello e vero, che è forza che l’uomo solitario e contento di sé solo sia o divinità o una bestia”. Per questo progetto di nuova economia egli conia l’aggettivo “civile”: un programma che si pone come alternativa alla teoria economica classica nella misura in cui pone al centro la persona e considera il mercato, l’impresa e l’economia in sé luoghi di amicizia, gratuità e mutuo vantaggio.

L’economia civile si presenta come un tentativo di riforma da attuare contro un’economia che esclude un’economia dello scarto. Infatti, come è solito affermare un noto economista italiano, “l’economia o è civile o è incivile”, ed è incivile quando esclude, penalizza, sfrutta, distrugge la vita comune.

Risulta dunque necessario, oggi più che mai, riflettere sul legame esistente tra due ambiti disciplinari solitamente considerati separati: l’economia e la filosofia e riconsiderare il legame esistente tra economia, relazioni personali e felicità intesa, in senso aristotelico, come eudaimonia. Solo grazie a questa rilettura è possibile porre le domande giuste al discorso economico, a cominciare dalla domanda sull’uomo. Proprio l’economia civile rappresenta lo spazio di questa riflessione in quanto si basa su una categoria fondamentale che è quella delle relazioni sociali, da cui poi derivano tutte le parole e i concetti essenziali, che costellano questa dimensione e che sono tra loro interdipendenti: bene comune, felicità, reciprocità, gratuità.

Le relazioni sociali, quindi, sono alla base dell’economia civile e rappresentano la cerniera tra economia e felicità. Come già evidenziava bene Aristotele, la grande peculiarità dell’essere umano è la relazionalità: “Senza amici, nessuno sceglierebbe di vivere, anche se possedesse tutti gli altri beni” (Etica Nicomachea, VIII, I). Recenti studi dimostrano come il livello di felicità soggettivo non sia legato all’aumento del reddito o del benessere materiale: si è soliti parlare, a questo proposito, di “paradosso della felicità in economia”. Ad aprire il dibattito fu, nel 1974, l’economista americano Richard Easterlin con un celebre articolo in cui sottolineava come, seppure il reddito medio per abitante avesse avuto nel suo paese una crescita straordinaria del 60% tra il 1945 e il 1970, la proporzione delle persone che si dichiaravano felici non era variata: questo studio, presto divenuto noto come paradosso della felicità, dimostra il debole legame tra reddito e felicità in tutti i Paesi che hanno già raggiunto una certa soglia di ricchezza, contraddicendo in tal modo una convinzione che era alla base dell’economia classica. Proprio il concetto di bene relazionale consente di risolvere il paradosso di Easterlin in economia mediante il riconoscimento della assoluta ed inderogabile centralità della persona con la sua identità (non l’individuo anonimo) e con le sue relazioni interpersonali. Porre al centro la persona: così si potrebbe sintetizzare il programma di ricerca dell’economia civile.

Oggi il paradigma dell’economia civile è promosso da studiosi di grande spessore culturale; non è possibile, in questo contesto, condurre una disamina di tutti coloro che hanno contribuito e contribuiscono a lavorare al nucleo di ricerca dell’economia civile e la cui mission consiste nel diffondere questo paradigma economico-culturale centrato su reciprocità, bene comune, dignità della persona. Un aspetto che deve inoltre essere sottolineato del programma di economia civile è rappresentato dalla “necessità di superare un’impostazione che vada oltre i singoli atti di responsabilità sociale e di mera filantropia, in favore di una che sia capace di interiorizzare una prospettiva che riconsideri integralmente il modo di essere e fare impresa”.

Concludiamo citando brevemente due magnifici esempi, tutti Italiani, di applicazione dei principi dell’economia civile.

Il primo che ci viene in mente è Adriano Olivetti (1926-1960) il cui obiettivo ideale era tradurre in progresso civile i risultati del processo produttivo: secondo questa concezione, infatti, l’impresa è irriducibile al puro profitto. La fabbrica si sviluppa per creare e diffondere, al proprio interno e nella realtà circostante, una migliore qualità della vita.

Ancora più recentemente, una traduzione del modello di economia civile è rappresentata dall’Economia di Comunione (EdiC), fondata da Chiara Lubich (1920-2008), in seguito ad un viaggio in Brasile nel 1991, in cui rimase scandalizzata dalla disumana povertà che incontrò. Con questo progetto Chiara Lubich si poneva l’obiettivo di umanizzare l’economia attraverso la creazione di imprese guidate da persone competenti per ricavarne degli utili da mettere in comune e da distribuire in favore dei poveri, per creare strutture deputate alla formazione di “uomini nuovi”, capaci di diffondere questo progetto, e, infine, per lo sviluppo dell’impresa. L’economia di comunione, che pone alla propria base il concetto di persona, rifiuta il paradigma dell’assistenzialismo e promuove la cultura del dono: il dono non ricerca lo scambio di equivalenti, ma persegue il rafforzamento delle relazioni sociali. L’economia di comunione, quindi, si basa sul superamento della netta contrapposizione tra il momento della produzione e il momento della distribuzione della ricchezza e sulla trasformazione dello stile di vita aziendale nella sua interezza, sostenendo un concetto di lavoro come ambito costitutivo dell’uomo in cui la persona possa realizzarsi. Il lavoratore, in base a questo paradigma, deve sempre avere a cuore il bene del destinatario a cui arriverà il frutto del suo lavoro, anche se non lo conosce. Come afferma la stessa Lubich: “Le imprese di Economia di Comunione si impegnano, in tutti gli aspetti della loro attività, a porre al centro dell’attenzione le esigenze e le aspirazioni dell’uomo e le istanze del bene comune. Esse, pur operando nel mercato e restando a tutti gli effetti delle ditte o società commerciali, si propongono come propria ragion d’essere di fare dell’attività economica un luogo di comunione: comunione tra chi ha beni ed opportunità economiche e chi non ne ha; comunione tra tutti i soggetti coinvolti nell’attività stessa”.

Indice dei podcast trasmessi [QUI]

Foto di copertina: Ambrogio Lorenzetti, Effetti del Buon Governo in Città (dettaglio) (fa parte di Allegoria ed Effetti del Buono e del Cattivo Governo, una serie di affreschi realizzati da Lorenzetti, contemporaneo al periodo del Governo dei Nove, volendo dare una rappresentazione del governo e delle conseguenze positive dello stesso nella società, e nella vita nella Città di Siena), 1338-40, affresco su parete, 200×720 cm, Sala della Pace, Palazzo Pubblico, Siena, Italia.
«Amate la giustizia voi che governate questa terra»
Gli affreschi del Buon e del Cattivo Governo di Siena
In Toscana, i frutti più nobili del lavoro e della creatività umana risalgono all’epoca in cui le città raggiunsero in Italia un livello di vita avanzatissimo e costituirono degli Stati il cui obiettivo non era la potenza ma il benessere dei cittadini. La riproduzione più significativa di questa epoca è quella degli affreschi del Buon e del Cattivo Governo, dipinti fra il 1337 ed il 1339 da Ambrogio Lorenzetti nella Sala dei Nove del Palazzo Pubblico di Siena e che rimangono di una grande importanza per il mondo contemporaneo. Furono commissionati ad Ambrogio Lorenzetti dal Governo dei Nove, che governò Siena dal 1287 al 1355, nel momento in cui la città è all’apogeo della sua potenza e della sua ricchezza ed è una delle quindici città più importanti d’Europa. Una potenza ed una ricchezza che Siena deve alla Via Francigena, una rete di strade e stradine che seguono i pellegrini provenienti dalla Francia per andare a Roma, che è anche un’arteria fondamentale per gli scambi ed il commercio fra l’Oriente e l’Occidente. Grazie a questa strada i mercanti senesi possono esportare i loro beni verso il nord dell’Europa ed importare d’Oriente spezie, tessuti e pietre preziose, come gli stili artistici ed i colori che ne fanno ancora il suo splendore. Con questi affreschi, Lorenzetti è chiamato a fare l’elogio del modello politico sofisticato della Repubblica di Siena.
Nell’allegoria del Buon Governo, la dama vestita di rosso porpora ed oro è la Giustizia, con la frase Amate la giustizia voi che governate questa terra, che apre il Libro della Saggezza. La stessa frase si legge nella pergamena che Gesù tiene in mano nella Maestà di Simone Martini, che si trova nella Sala del Mappamondo, dove si riuniva il Gran Consiglio di Siena, il Parlamento della Città. È la frase che Dante vede apparire nel cielo del Paradiso.
Le altre due figure che sono al centro del dipinto, sono la Saggezza e la Concordia, che sono legate da una corda ai cittadini che a loro volta la passano al Comune di Siena, rappresentato da una persona vestita in bianco e nero, i colori della Città. Tutti i dettagli dell’allegoria fanno riferimento alla concezione filosofica e del mondo di Aristotele e di San Tommaso d’Aquino, che sono l’essenza della Divina Commedia.

Nelle immagini che riproducono gli effetti del Buon Governo, Lorenzetti ha dipinto le sue caratteristiche e le sue conseguenze. Tutti si danno da fare e lavorano ad ogni angolo di strada; i contadini scambiano i loro prodotti e parlano con gli abitanti della città. I bambini giocano. Le fanciulle danzano, una donna in rosso convola a nozze e fonda una nuova famiglia, in un quadro di pace e serenità. Un’atmosfera che si oppone a quella di guerra e di distruzione provocata dal cattivo governo, rappresentato nell’allegoria del cattivo governo, i suoi effetti in città ed i suoi effetti in campagna.

L’allegoria del Cattivo Governo è dominata da una figura con le corna, il tiranno, che è strabico. Il tiranno non è per Lorenzetti, e la sua epoca, il dittatore. Il tiranno è colui che non pensa che ai suoi interessi e non vede il bene comune.
Nel 1310, il governo di Siena ha fatto tradurre gli Statuti della Città in toscano, affinché tutti i Senesi possano capire le leggi e le regole della vita comune. Nel 1337, commissionando gli affreschi a Lorenzetti, il Governo dei Nove vuole dire a tutti i cittadini, anche coloro che non sanno leggere, che la miglior forma di governo possibile è la repubblica.
I 9 che componevano il governo della Repubblica di Siena assumono il loro compito a rotazione, per un periodo di 3 a 6 mesi, restano rinchiusi nel Palazzo durante tutto il periodo del loro mandato per essere totalmente a servizio dei loro ideali e dedicarsi interamente alla missione del Bene Comune, che si oppone all’interesse particolare. Il nome originario degli affreschi è “il Bene Comune e la Pace” ed è solamente nel XVII secolo che vengono chiamati “Il Buon e il Cattivo Governo”.
Gli affreschi del Buon e del Cattivo Governo fanno comprendere che è sul rispetto dei valori etici come la giustizia, la saggezza, la concordia, che riposa il buon governo, quello che assicura il “Bene Comune”, il bene di tutti. Essi fanno vedere che è nelle città che è nato quel sistema di governo straordinario che è stato quello delle repubbliche italiane del Medio Evo, le Città-Stato, in cui un terzo dei cittadini partecipavano concretamente alla vita pubblica e politica. Essi ricordano che queste Città-Stato avevano fondato la loro potenza e la loro ricchezza sul commercio e lo scambio con il resto del mondo e che quelle società fiorenti furono il punto di partenza del Rinascimento, che avrebbe contribuito allo sviluppo dell’Europa e dell’umanità.

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