Nata in una famiglia nobile, bella e ambiziosa, circondata da ricchezze, Santa Giacinta Marescotti a lungo inseguirà desideri mondani, ma incontrerà l’amore di Dio durante una grande sofferenza. E da quel momento in avanti la ragazzina frivola e leggera di un tempo comincerà la scalata della santità. Da giovane amava la vanità, la frivolezza e le leggerezze. Era quella che si potrebbe tranquillamente dire una figlia di buona famiglia, rampolla com’era della nobile famiglia dei Principi Marescotti. Da piccola il suo unico sogno è avere un buon matrimonio che la garantisca una vita di agi e comodità. Al giorno d’oggi il matrimonio non gode di grande considerazione, in compenso la ricerca della mondanità e della realizzazione personale sono un must. Dunque nulla di particolarmente nuovo. Però, Dio aveva in serbo ben altri progetti per lei e gli ultimi ventiquattro anni della sua vita saranno anni di rinunce e di sacrifici per il prossimo. Si dedica con particolare attenzione ai poveri e agli ammalati. Gli amici di un tempo la aiutano sul piano finanziario nella sua opera di carità. Così, anche dalla clausura riesce a organizzare le attività di due istituti assistenziali: i Sacconi (detti così per via del sacco indossato dai confratelli quando prestavano servizio), ovvero infermieri aiutavano i malati, e gli Oblati di Maria, che portavano sollievo conforto agli anziani abbandonati a sé stessi.

Suor Giacinta stessa si prodiga dando tutto quel che riceve ai poveri e grazie al suo esempio molti ritorneranno ad abbracciare la fede, tanto da far scrivere a Papa Pio VII scritto nella Bolla di canonizzazione del 24 maggio 1807: «Attraverso il suo apostolato di carità ha guadagnato più anime a Dio che molti predicatori suoi contemporanei».
Giacinta morì il 30 gennaio 1640in fama di santità, venerata in particolare tra i convertiti dalla grazia dopo un passato da grandi peccatori. Tutti, durante la sua veglia funebre, vogliono prendere e portarsi via un pezzetto della sua veste come reliquia, al punto che il suo corpo deve essere rivestito tre volte.
Il 24 maggio 1807 Papa Pio VII dichiarava Santa Giacinta Marescotti ”a gran dovizia ricolma dei meriti di accesa carità verso Iddio e il prossimo, di singolare penitenza, e di tutte le cristiane virtù, nonché gloriosa per miracoli”.








- Video dei Primi Vespri [QUI]
A conclusione dei solenni Primi Vespri, con l’Offerta del Cero in Atto di affidamento della Città di Vignanello a Santa Giacinta Marescotti, tenutisi alle ore 17.00 nell’Androne del Castello Ruspoli, i Cavalieri Costantiniani hanno preso parte alla V edizione della “Uscita di Santa Giacinta” dal Castello Ruspoli, presieduta dal Signor Cardinale Enrico Feroci, della Diaconia di Santa Maria del Divino Amore a Castel di Leva, di cui è parroco.

I Cavalieri Costantiniani hanno prestato anche scorta d’onore alla statua della grande taumaturga francescana, nella devota processione che è stata accompagnata dai Facchini, dal Comitato Festeggiamenti, dalla Confraternita dei Sacconi e delle Dame di Santa Giacinta Marescotti, e dalla Banda di Soriano nel Cimino. Tra le autorità presenti, il Dott. Alessandro Romoli, Presidente della Provincia di Viterbo.





Successivamente, presso la chiesa collegiata di Santa Maria della Presentazione, i Cavalieri Costantiniani hanno partecipato alla celebrazione della solenne Santa Messa in onore di Santa Giacinta Marescotti, presieduta dal Signor Cardinale Enrico Feroci, che nella sua omelia ha ripercorso le fasi salenti della vita della Santa Patrona di Vignanello, esortando i presenti a continuare la sua opera nel praticare la carità verso i fratelli malati e bisognosi. Nel saluto finale, il Parroco Don Roberto Baglioni, ha ringraziato l’Ordine Costantiniano per la tradizionale partecipazione ai festeggiamenti in onore di Santa Giacinta a Vignanello.

Terminato il Sacro Rito, nel corso della riunione conviviale, il Delegato si è intrattenuto con il Cardinale Enrico Feroci, che si è congratulato per le attività caritatevoli svolte nel territorio dalla Delegazione della Tuscia e Sabina. Grande apprezzamento per la presenza della Delegazione è stato manifestato pure dalle Principesse Donna Claudia e Donna Giada Ruspoli, figlie del compianto Don Sforza Marescotti Ruspoli, Principe di Cerveteri.

Castello Ruspoli a Vignanello
Castello medioevale situato nel nord del Lazio, una fortezza che conserva la storia della famiglia Ruspoli nel tempo. Grazie al restauro e alle misure di conservazione promosse della famiglia, il Castello è oggi conosciuto in tutto il mondo come la sede di uno dei Giardini Rinascimentali più importanti e meglio conservati d’Europa.
Nel 1531, Papa Clemente VII donò il castello a Beatrice Farnese Baglioni. La figlia, Ortensia venne data in matrimonio ad Ercole Sforza Marescotti, per favori concessi a Papa Paolo III. Ortensia portava in dote il castello di Vignanello.


Il giardino fu voluto nel 1610 dalla moglie di Marco Antonio Marescotti, Ottavia Orsini, figlia del creatore del suggestivo giardino di Bomarzo, che ha lasciato traccia indelebile del suo amore per questo luogo: le proprie iniziali e quelle dei suoi due figli Sforza e Galeazzo, permettendo così la certa datazione della nascita del giardino.
Il nome Ruspoli, antica famiglia fiorentina, venne incorporato a quello dei Marescotti nel 1704, a seguito del matrimonio dell’ultima ereditiera, Vittoria, con Sforza Vicino Marescotti.
Francesco Maria Marescotti Ruspoli Capizucchi ricevette il titolo di Principe da Papa Clemente XI nel 1709, per aver donato il reggimento Ruspoli durante la guerra di Comacchio, contro l’Austria.

Cardinale Enrico Feroci
Il Cardinale Enrico Feroci, Arcivescovo titolare di Passo Correse, è nato il 27 agosto 1940 a Pizzoli, Arcidiocesi di L’Aquila. È entrato a undici anni nel Pontificio Seminario Romano Minore e dopo gli studi liceali, ha proseguito al Seminario Romano Maggiore.
Ordinato sacerdote il 13 marzo 1965, è stato per un anno assistente al Pontificio Seminario Romano Minore e successivamente (1966-68) al Seminario Maggiore; nel 1968 è ritornato al Seminario Minore come Vicerettore.
Nel 1976 ha lasciato il Seminario Minore per diventare Viceparroco di San Frumenzio ai Prati Fiscali (1976-1980) e poi Parroco (1980-2004).
È stato per molti mandati Prefetto della IX Prefettura, membro del Consiglio dei Prefetti, del Consiglio Presbiterale, del Consiglio per gli affari economici, del Collegio dei Consultori della Diocesi, partecipando e collaborando da vicino alla realizzazione di tutti gli eventi ecclesiali diocesani di quegli anni: il Sinodo della Chiesa di Roma (1987-1992), la Missione Cittadina che precedette il Giubileo del 2000. È stato nominato Cappellano di Sua Santità il 13 ottobre 1995.
Ha lasciato San Frumenzio il 1° luglio 2004 ed è diventato Parroco di Sant’Ippolito a piazzale delle Province, fino al 1° settembre 2009, quando il Cardinal Vicario lo ha nominato Direttore della Caritas Diocesana. In quanto Direttore Caritas viene anche nominato Presidente della Fondazione Caritas Roma e della Fondazione antiusura Salus Popoli Romani. Ha presieduto quindi la Cooperativa Roma Solidarietà, ente gestore dei servizi promossi dalla Caritas de Roma. È anche Consultore del Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti.
Il 10 novembre 2017 il Cardinale Vicario lo ha nominato Presidente dell’Associazione Pubblica Clericale degli Oblati Figli della Madonna del Divino Amore, affidandogli la responsabilità di Rettore del Santuario del Divino Amore e di Rettore del Seminario della Madonna del Divino Amore (1° settembre 2018). Lo ha nominato Canonico e Camerlengo della Basilica Papale Santissimo Salvatore e Santi Giovanni Battista ed Evangelista in Laterano.
Il 1º settembre 2019 è stato nominato Parroco della Parrocchia Santa Maria del Divino Amore a Castel di Leva.
Il 15 novembre 2020 ha ricevuto l’Ordinazione episcopale nel Nuovo Santuario della Madonna del Divino Amore.

Da Papa Francesco creato e pubblicato Cardinale nel Concistoro del 28 novembre 2020, della Diaconia di Santa Maria del Divino Amore a Castel di Leva.

Santa Giacinta Marescotti
Giacinta nasce il 6 marzo 1585 a Vignanello, sul versante orientale dei monti Cimini, nel castello familiare del padre, Marcantonio Sforza Marescotti. L’avevano battezzata Clarice, un nome a suo modo profetico perché derivava da Clara, ovvero “la luminosa”, e Chiara era la fondatrice dell’Ordine al quale lei sarebbe appartenuta.
I primi biografi l’hanno descritta come una bimba molto vivace e precocissima. Si narra che a sette anni fu salvata miracolosamente dalla caduta in un pozzo che esiste ancora oggi con la scritta “Servatus hic puteus, servatae B. Hiacintae aeternum perhibet testimonium” (Questo pozzo conservato è testimonianza eterna della salvezza ottenuta dalla Beata Giacinta). Preoccupati per il suo temperamento irrequieto, i genitori pensarono bene di affidarla alle monache del convento di San Bernardino da Viterbo, che era uno dei più fiorenti della città e si estendeva sul pendio del quartiere di San Pellegrino verso la Vallecupa: come oggi d’altronde.
La superiora era una zia, Suor Beatrice, che avrebbe potuto curarne l’educazione assistita dalla sorella maggiore di Clarice, Ginevra, anche lei monaca a San Bernardino e apprezzata per la sua bontà.
Ma Clarice non resistette a lungo alla disciplina conventuale e in capo a un anno tornò a Vignanello. Cresceva alta, bella, consapevole della sua bellezza altera. Sognava un principe azzurro, che un giorno apparve al castello: era il Marchese Paolo Capizucchi di Poggio Catino. Ma il padre non tenne in alcun conto l’amore di Clarice, che decise di rinchiudere in convento, mentre obbligava una sua sorella minore, Ortensia, per nulla innamorata, a fidanzarsi con il Capizucchi. Che cosa era mai successo di tanto grave?
Il suo primo biografo, il Gesuita Francesco Maria de Amatis, la descrive così negativamente “mostravasi tanto ritrosa ed acerba che da pochi era amata e da molti fuggita”, che ci induce a pensare che il padre non la considerasse adatta alla vita matrimoniale. Altri biografi la dipingono come “cupa, intrattabile, grave alla famiglia”. Sicché Marcantonio Marescotti, “stanco del suo cattivo umore e delle bizzarrie”, le propose di farsi monaca. In quell’ambiente e in quell’epoca anche una ventenne dal carattere forte come Clarice non aveva alternativa. Ma era veramente una giovane intrattabile, insofferente dell’autorità paterna e poco adatta al matrimonio? O forse il suo comportamento imbarazzava il padre che non era uno stinco di santo, anzi aveva un carattere violento e litigioso, tant’è vero che morì ucciso da Ubaldino ed Ercole, Conti di Marsciano, il 4 settembre i 1608?
Vi sono poi due testimonianze che dipingono l’uno e l’altra in modo diverso da quello del primo biografo, il quale forse non voleva dispiacere alla famiglia Marescotti, tant’è vero che nella presentazione del libro si rivolgeva “All’ill.mo e rev.mo Monsignor Galeazzo Marescotti, Arcivescovo di Corinto”, che era il nipote della Santa. Un giorno due contadini del Principe, Ottavio Olivieri e Bernardino Buzio, portando in convento del cibo da Vignanello, si lamentarono con Giacinta per i maltrattamenti che subivano da suo padre, tanto diverso da lei. Un altro contadino, che aveva portato una cesta di frutta alle monache da parte del Principe, scoppio a piangere. La giovane monaca, vergognandosi per il comportamento del padre, s’inginocchiò davanti al contadino per baciargli i piedi. Questo succedeva nei primi anni, quando Clarice non aveva ancora accettato il suo nuovo stato e viveva negli agi, poco o punto rispettando la Regola di Santa Chiara. Sicché viene da pensare che il contrasto col padre non fosse soltanto dovuto al suo temperamento vivace. Forse lei non accettava quella logica della violenza e della sopraffazione che ispirava il comportamento di Marcantonio, e non glielo nascondeva. Lo imbarazzava e forse persino lo irritava comportandosi con dolcezza con i servi e i contadini, proteggendoli forse. Come avrebbe potuto essere una buona moglie una ragazza poco remissiva e dal comportamento non consono alla sua casta? Cosi doveva pensare Marcantonio.
L’8 gennaio 1605 Clarice entrava nel monastero di San Bernardino, come terziaria francescana, prendendo il nome di Giacinta. Il padre le aveva assicurato una ricca dote di 600 scudi e una rendita personale di 40 all’anno. Andò ad abitare in due camere nella parte più alta del monastero, nella zona che, dopo i bombardamenti dell‘ultima guerra, corrisponde al coro attuale: l’una guardava verso l’orto, l’altra verso Pianoscarano, il quartiere di là da Vallecupa. Le arredò lussuosamente, con quadri e mobili di famiglia e con vasellame di maiolica; e volle che la sua tonaca fosse di stoffa finissima.
“Rimase nella vita religiosa” è scritto nel processo di canonizzazione “per circa dieci anni non dimenticando ancora le comodità della sua casa, mantenendo con una certa libertà le sue stanze adornate nobilmente e vivendo in maniera confortevole”. Certo, in quell’epoca le monache che provenivano da famiglie nobili e ricche usavano arredare con mobili familiari le loro celle. Ma Giacinta, che non aveva mai sentito la vocazione e non voleva sottomettersi se non formalmente alla Regola, ostentava probabilmente la sua indifferenza esprimendola in quell’attenzione ai piccoli lussi che le permetteva la vita conventuale.
I suoi primi biografi si affrettano a sottolineare che non incorse mai “in colpe di disobbedienza o di scandalo”. Ma qualche predicatore viterbese, fino a pochi anni fa, la presentava come una Monaca di Monza laziale. Esagerazioni di qualche parroco influenzato dal Manzoni? Dove sta la verità? In mancanza di documenti. che forse esistevano nel convento prima del bombardamento che distrusse l’archivio, si può tentare un’ipotesi ragionevole: Giacinta non commise mai scandali, rispettando la vita conventuale, ma per dieci anni visse senza partecipare se non esteriormente ai doveri imposti dal suo nuovo stato. L’immagino fantasticare, sdraiata sul lettino, sul suo principe azzurro, sugli abiti che avrebbe indossato, e le partite di caccia, e le danze… Come doveva essere dura quella prigione cui l’aveva costretta il padre. E a primavera quegli stridii insistenti di rondoni e i profumi del caprifoglio fiorito e il languore dei primi caldi le rimescolavano il sangue. “Perché a me, proprio a me doveva capitare”, era un pensiero che le tornava ossessivamente “una simile disgrazia?”. Poi suonava la campanella che invitava alla preghiera comune e Giacinta scendeva nel coro, compunta e altera, a eseguire la parte che le era stata assegnata.
A trent’anni fu colpita da una malattia che la costrinse a letto per parecchi mesi. Un giorno capitò nel monastero un dotto Francescano, Antonio Bianchetti, molto stimato per il suo rigore morale. Lei chiese d’incontrano. Quando il frate, entrato nell’appartamentino, vide lo sfarzo in cui viveva la monaca, non riuscì a trattenersi: “A nulla gioverà confessarvi” esclamò. “Il Paradiso non è fatto per le persone superbe e vanitose come voi”. E si allontanò rifiutandosi di confessarla. Così perlomeno raccontano i suoi biografi drammatizzando probabilmente l’episodio. Il rimprovero del Francescano giungeva al momento opportuno: in pochi mesi erano morti il fratello Galeazzo, la sorella Ortensia, quella che aveva sposato il suo principe azzurro, e la madre Ottavia. Tutti questi avvenimenti, insieme con un sentimento di insoddisfazione per una vita che si stava consumando nel rancore, nella nostalgia e nell’ indifferenza, trasformarono Giacinta. Qualche giorno dopo indossò una rozza tonaca e si recò in refettorio chiedendo perdono a tre monache per il suo comportamento, promettendo di vivere, da allora in poi, come un’autentica figlia di Francesco.
Abbandonò il ricco appartamento e scelse una cella angusta dove come ornamento volle soltanto una rozza croce che arrivava fino al soffitto: donata, nel 1841, dal Principe Alessandro Sforza Ruspoli, discendente della famiglia della Santa, alla compagnia dei Sacconi di Roma.
Alla croce Giacinta si legava con una grossa catena quando andava a dormire sul suo letto di assi di legno, su cui teneva un materasso di paglia e un sasso come cuscino. Ma quando voleva far penitenza si sistemava in un anfratto del muro chiuso da due ante, una specie di canile, che è stato conservato insieme con la sua cella. Si era tolta i sandali per portare zoccoli che poi eliminò andando scalza. Nelle giornate rigide, quando soffiava tramontana, si recava nel giardino spezzando lastre di ghiaccio per immergere nelle pozze sottostanti i piedi nudi.
Un giorno, ritenendo di soffrire troppo poco sul terreno gelato, chiese un’ulteriore penitenza al Signore, una penitenza che le ricordasse la Passione: ed ecco che dai suolo spuntò una piantina che aveva su ogni foglia una spina; la pianta che venne poi chiamata di Santa Giacinta. In realtà si tratta del Ruscus hypoglossum, detto anche ruscolo maggiore o erba bonifica o bislingua. Ogni venerdì si cibava di erbe amare in ricordo del fiele che fu dato a Gesù; e riviveva gli episodi della Via Crucis trasportando una pesante croce per tutto l’orto. Coronata di spine, percorreva la Via Crucis flagellandosi a sangue e fermandosi ogni tanto presso le cappelline che costeggiavano l’orto. Saliva infine sulla cima del colle, che oggi non appartiene più alle monache, ma è diventato un ristorante. Lungo la salita vi era uno spiazzo con una tavola di peperino dove altre volte la Santa si stendeva in contemplazione.
Aveva rinunciato a tutti i privilegi e badava al focolare, sciacquava le stoviglie genuflessa, saliva e scendeva, con la croce in spalla, una lunga scala, puliva gli ortaggi in cucina, spazzava i pavimenti. Quel tenore di vita la sfiancò causandole anche dolori addominali fortissimi che lei accettava serenamente, come espiazione per quei dieci lunghi anni di indifferenza. Cosi come accettava le umiliazioni morali che subiva nei primi tempi dalle sue consorelle, convinte che fosse un’ipocrita.
Una volta Giacinta si era inchinata per baciare i piedi di una monaca per chiederle perdono; ma quella reagì colpendola con un calcio al volto e dicendo di smetterla con quei modi che sapevano di ostentazione teatrale. Per dimostrare la loro disapprovazione, giunsero persino a ignorarla. A quelle sofferenze se ne aggiunsero altre spirituali, causate dalle tentazioni del demonio, che cercava di scoraggiarla ispirandole dubbi sulla sua vita di penitenza o addirittura presentandole la vita paradisiaca come uno stato di noia. La infastidiva anche fisicamente con dispetti e piccoli incidenti. Oppure le appariva alla finestra nelle sembianze di un bellissimo giovane che lei cacciava col segno della croce, sbattendogli le imposte in faccia. Le monache mostrano ancora oggi un foro su un balcone lasciato, dicono, dal demonio, che un giorno lo bucò col suo calore durante una foga troppo precipitosa.
Di là dalle amplificazioni leggendarie che accompagnano la vita di ogni personaggio celebre, abbiamo un diario della Santa, ancora inedito, che conservano i Frati Minori Conventuali nel loro archivio generalizio ai Santi Dodici Apostoli di Roma, oltre a lettere e bigliettini dove non soltanto non faceva cenno delle sue penitenze, ma consigliava agli altri moderazione. “Per piccoli difetti o mancanze”, diceva fra l’altro, ”niuno si turbi o si rattristi, ché siamo di carne e non di marmo, perché chi diede il desiderio darà anche la forza per eseguirlo… Iddio essendo padre amoroso non suol caricare la soma più di quello che possono sopportare le spalle”.
Giacinta non era una Clarissa, ma una Terziaria Francescana con voti semplici e perpetui, sicché non era tenuta alla clausura rigida e poteva ricevere visite. Grazie a questa sua relativa libertà riusciva a conoscere i problemi dei più poveri o dei sofferenti che aiutava in tutti i modi. Finché un giorno venne a sapere che era giunto da qualche mese a Viterbo un certo Francesco Pacini, un Pistoiese di buona famiglia e dal carattere impetuoso, che per amore dell’avventura si era arruolato come soldato; un soldato violento, attaccabrighe, pronto a correre dietro alla prima donna graziosa che incontrasse per via. Ne mormorava tutta la cittadina. Giacinta decise di convertirlo. Dopo aver pregato e digiunato a lungo, mandò a chiamarlo da un certo Simonetti, ma il Pacini, burlandosi della Santa, rifiutò l’invito. Giacinta non si diede per vinta. Continuò a insistere in tutti i modi scrisse persino alla madre del soldato, Tarquinia, pregandola di convincere il figlio. Il quale alla fine cedette più per curiosità che per convinzione: fu un colpo di fulmine. Che cosa la Santa gli abbia detto, e con quale dolcezza non Io sapremo mai.
Qualche settimana dopo Francesco Pacini indossò un rozzo sacco cingendosi con una funicella, si tagliò i lunghi capelli ed entrò in una chiesa chiedendo pubblicamente perdono davanti a tutti i fedeli per il cattivo esempio che aveva dato.
Un giorno domandò a Giacinta: “Dove mai potrò incontrare Gesù”. “Andate allo spedale e troverete Colui che cercate”, rispose lei. Da quel momento il Pacini si dedicò ad aiutare i malati dell’ospedale; finché un giorno, mentre stava curando amorevolmente un malato di lebbra, questa spari improvvisamente dalle sue braccia.

Grazie alla collaborazione di Francesco, Giacinta poté fondare due confraternite per l’assistenza e la cura dei poveri e dei malati. La prima fu chiamata dei Sacconi perché gli iscritti andavano vestiti di sacco per le vie della città suonando una campanella e invitando i cittadini a offrire doni e cibi per gli infermi, i poveri e i carcerati, cui prestavano assistenza ogni giorno. Ma i Sacconi erano anche tenuti, secondo la Regola che Giacinta aveva scritto, a penitenze e preghiere particolari come le funzioni che ancora adesso si chiamano del Carnevaletto perché si svolgono al giovedì grasso. In quel giorno i confratelli dovevano comunicarsi e recitare insieme l’ufficio della Madonna; poi al pomeriggio andavano in solenne processione ad adorare il Santissimo in tutte le chiese dove era esposto. Analoghe confraternite sorsero in altre cittadine dell’Italia centrale, e persino a Roma, presso la chiesa di San Teodoro. Ancora oggi esistono nelle Marche cinquantacinque Sacconi che nel 1990, in occasione del trecento cinquantesimo anniversario della morte della Santa, sono giunti fino alla basilica di San Lorenzo in Lucina, a Roma, e dopo la processione sulla piazza sono entrati in chiesa prosternandosi davanti alla cappella dedicata a Giacinta, che vollero gli Sforza Ruspoli, i discendenti della sua Casata, facendola decorare con due quadri di Simon Vouet e un altro del Benefial, dove lei è raffigurata sul letto di morte. Anche nella chiesa di Santa Maria, a Vignanello, vi è un quadro di Giuseppe Passeri dedicato al Transito di Santa Giacinta Marescotti.

L’urna in cui si conserva il suo corpo si trova nella chiesa di San Bernardino in Viterbo, ma il suo culto è vivo in tutto il Lazio settentrionale e anche a Roma dove gli Sforza Ruspoli, suoi familiari, costruirono una cappella nella chiesa di San Lorenzo in Lucina.

Preghiera
Signore, nostro Dio, Amore, Verità, Bellezza, nel Giardino di questa Tua Chiesa hai fatto fiorire con una santità esigente Giacinta Marescotti e le hai dato un amore appassionato per Te, nella Croce e nell’Eucarestia, come nei poveri, nei malati negli ultimi.
Noi per lei Ti ringraziamo e Ti chiediamo, per la sua intercessione, di conoscere e accogliere il Tuo amore che vince l’indifferenza, l’ostilità l’egoismo, per divenire capaci-come lei di essere pane, veste, casa e di donare accoglienza, consolazione e amicizia a chi è povero, solo, bisognoso e così accrescere la luce, e la carità nella Chiesa, costruire una convivenza umana giusta solidale e fraterna, con la forza viva e sempre nuova della carità.
Santa Giacinta prega per noi.
Amen.

Convegno a Roma in memoria di
Don Sforza Marescotti Ruspoli
nel II Anniversario della scomparsa
“Lealmente senza esitare”
Sabato 25 gennaio 2025 alle ore 17.00 presso Palazzo Ruspoli in largo Goldoni 6 a Roma, si è svolto un Convegno con cui si è inteso rendere omaggio alla memoria nel secondo anniversario della scomparsa, avvenuta a Roma il 25 ottobre 2022, del compianto Don Sforza Marescotti Ruspoli, Principe di Cerveteri, Patrizio Romano, persona di altissimo livello morale, culturale e religioso, conosciuto e riconosciuto in tutto il mondo. Al Convegno ha partecipato, su invito della Principessa Donna Maria Pia Ruspoli, vedova del commemorato, il Delegato per la Tuscia e Sabina del Sacro Militare Ordine Costantiniano di San Giorgio, Nob. Avv. Roberto Saccarello, Cavaliere Gran Croce de Jure Sanguinis con Placca d’Oro. Tra gli illustri convenuti, S.A. Em.ma il Principe e Gran Maestro del Sovrano Militare Ordine di Malta, Fra’ Jonn Dunlap e la Principessa Donna Maria Elettra Giovannelli, figlia di Guglielmo Marconi.
Dopo la prolusione tenuta dal Signor Cardinale Raymond Leo Burke, Prefetto emerito del Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica, e i saluti della Principessa Donna Maria Pia Ruspoli, sono intervenuti tra gli altri il Nob. Prof. Gianandrea dei Baroni de Antonellis, docente presso l’Università del Molise, Cavaliere di Onore e Devozione del Sovrano Militare Ordine di Malta, e il Prof. Dott. Benigno Roberto Mauriello, docente di Storia Militare presso l’Università Europea di Roma e di Storia Contemporanea presso l’Istituto Superiore di Scienze Religiose “Redemptor Hominis” di Benevento. Ha moderato i lavori, il Prof. Dott. Vasiliki Bafataki dell’Università Nazionale Capodistriana di Atene.



Sforza Marescotti Ruspoli (Roma, 23 gennaio 1927-Roma, 25 ottobre 2022) è stato agricoltore, politico, banchiere, dirigente d’azienda, costruttore e ambasciatore del Sovrano Militare Ordine di Malta. Discendente da una delle più importanti Casate della nobiltà dell’Urbe, figlio secondogenito di Francesco Ruspoli, 8° Principe di Cerveteri e di Claudia Matarazzo, figlia di Francesco Matarazzo, simbolo dell’emigrazione italiana in Sud America dove fondò un impero industriale, Sforza Ruspoli ha avuto una vita movimentata fin dall’infanzia. Aveva solo otto anni quando in seguito alla morte della giovane madre, venne preso in cura in Brasile presso il nonno Francesco Matarazzo. Il commovente incontro del piccolo orfano con il padre di sua madre, inconsolabile per la perdita della sua tredicesima figlia, è una delle pagine più belle dell’ultimo dei libri di Sforza Ruspoli dal titolo Vite da leoni. La fortuna di averti conosciuti (Pagine 2017), dedicato agli uomini di rilevante valore che ha avuto “la fortuna di aver conosciuto”.
L’antica Casata Marescotti Ruspoli ha rappresentato una Roccia della Chiesa Apostolica Romana, risalendo al condottiero Mario Lo Scoto (il Capostipite del Casato Marescotti, che si estinse nel Casato Ruspoli), che giunto a Roma dalla Scozia prestò soccorso a Papa San Leone III, liberando nel 779 Roma dai Longobardi, con 1500 soldati al servizio di Carlo Magno, per riconsegnarla al Papato.
Nel 1708, Francesco Maria Ruspoli creò il Reggimento Ruspoli a proprie spese, costituito da circa mille uomini, e lo mise a servizio della Santa Sede. Nel 1721, Papa Benedetto XIII conferì a Francesco Maria il titolo di Principe Romano, per sé e per i suoi discendenti per sempre. Alla fine del ‘700 i Ruspoli contribuirono con 800 mila scudi d’oro a pagare le indennità imposte da Napoleone Bonaparte alla Chiesa.
Il bisnonno di Sforza Ruspoli, Francesco, Ufficiale dei Dragoni Pontifici, ha combattuto a Mentana e a Porta Pia in difesa della Civiltà Cristiana. Per 141 anni la Famiglia Ruspoli ha conservato la “Bandiera di Fortezza Pontificia” che il 20 settembre 1870 sventolava a Porta Pia, bianca e gialla, con il triregno e le chiavi decussate. Il 29 settembre 2011, nella ricorrenza di San Michele Arcangelo, in una grandiosa cerimonia della Gendarmeria Vaticana Sforza Ruspoli ha riconsegnato la bandiera a Papa Benedetto XVI; il Vessillo ha ricevuto l’Onore delle Armi dal Montebello Cavalleria.

Papa Benedetto XVI nominò Sforza Ruspoli Grand’Ufficiale dell’Ordine Piano, il primo Ordine Cavalleresco della Santa Sede, riservato ai Capi di Stato e ad Autorità di rilievo al servizio della Santa Sede.
Sforza Ruspoli nel 1998 ha presieduto il Comitato Internazionale per la Beatificazione di Papa Pio IX, che avvenne nell’anno 2000 con grande gioia di Papa Giovanni Paolo II. Nel 2010 viene nominato ad Honorem Accademico Pontificio della più antica Insigne Accademia di Belle Arti e Lettere dei Virtuosi al Pantheon.
Nel 1999 Sforza Ruspoli viene nominato Commissario del Corpo Militare dell’Associazione dei Cavalieri Italiani del Sovrano Militare Ordine di Malta-ACISMOM, nella sede di Palazzo del Grillo. Nell’anno 2000 viene nominato Ambasciatore dello Sovrano Militare Ordine di Malta alla Valletta-Malta ed è qui che riceve Kirill, poi Sua Santità Patriarca di Mosca e di tutte le Russie. Per devozione va quattro volte a Mosca per incontrarlo al seguito del Cardinale Paul Poupard, per oltre 30 anni Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura. Sforza Ruspoli fu anche il primo Delegato per Viterbo-Rieti del Sovrano Militare Ordine di Malta, carica oggi tenuta dal Nob. Avv. Roberto Saccarello, Cavaliere Gran Croce di Grazia Magistrale, che di Sforza Ruspoli è il secondo successore come Delegato.

Per tutta la sua vita, grazie alla sua costanza, alla sua passione verso il Casato, si è sempre preso cura delle sue dimore storiche di Cerveteri e di Vignanello, che furono antiche Roccaforti in difesa dello Stato Pontificio. Queste residenze vengono utilizzate per incontri di carattere culturale, diplomatici ed eventi. A Vignanello riceve la visita anche di Margaret Thatcher e più volte a Cerveteri venne la Principessa Margaret, nel ricordo di molti anni prima quando all’età di diciannove anni partecipò ad una ristrettissima cena danzante a Palazzo Colonna in onore dell’allora giovanissima Elisabetta, futura Regina d’Inghilterra.
Sebbene fosse di un lignaggio tra i più illustri, Sforza Ruspoli ha sempre privilegiato il bene del popolo al quale ha dedicato il suo impegno civico ispirato alla Dottrina Sociale della Chiesa, di cui è emblematica sintesi il celebre discorso del 29 dicembre 2012. Per lunghi anni ha vissuto con edificante fortezza Cristiana una dolorosa infermità, privo anche della vista. Si è spento piamente nel palazzo avito al Corso e i suoi funerali si sono svolti venerdì 28 ottobre 2022 presso la basilica di San Lorenzo in Lucina. Paladino della Fede e della Chiesa, ha promosso con vigore ed entusiasmo le più nobili battaglie civili, incarnando in modo davvero splendido il motto della sua famiglia: “Lealmente senza esitare”.
Nel 1956, Sforza Ruspoli fondò i Centri di Azione Agraria, un movimento apartitico e interclassista per la difesa dell’agricoltura e della civiltà contadina. Riteneva che il modello di sviluppo voluto dalla grande industria che comportò l’emigrazione di massa dalle campagne del sud verso il nord, fosse gravemente anti-agricolo. Furono cinque milioni i Meridionali che lasciarono le campagne, i loro campanili, i loro affetti, le loro specializzazioni, le loro secolari abitudini per raggiungere come nuovi schiavi le catene di montaggio del triangolo industriale Torino-Milano-Genova.
I Centri di Azione Agraria ebbero migliaia di adesioni non solo nel Meridione da dove partirono continue e dure manifestazioni di piazza ma anche in Piemonte, in Lombardia, in Veneto e in Val Padana. Fu un periodo rivoluzionario per Ruspoli, che con la sua notevole carica operativa, seppe chiamare le folle raccogliendo il plauso della povera gente non irreggimentata nei partiti che si sentiva tradita e abbandonata. Ci furono marce di trattori, cortei, scontri, cariche della polizia. I dati relativi all’attività dei Centri di Azione Agraria dal 1959 al 1962 furono i seguenti in virtù di una solida struttura organizzativa:156 raduni, 36 conferenze, 18 convegni, 53 marce di trattori e molteplici azioni di massa. L’azione dei Centri che sono stati citati finanche nel memoriale compilato da Aldo Moro durante la sua tragica prigionia, causò non pochi grattacapi alle autorità governative. Si racconta che Pietro Nenni piuttosto allarmato, si chiese in un dibattito parlamentare: “Ma questo Ruspoli cosa vuole?”.
La battaglia di Sforza Ruspoli per restituire centralità all’agricoltura non si è mai fermata; definito “Principe Contadino” fu sempre in prima linea nelle manifestazioni di piazza che si susseguirono negli anni, a Milano nel 1961, dove negli scontri riportò una grave contusione cranica, nonché a Reggio Calabria nel quartiere Sbarre, il culmine della rivolta fu al grido di “Boia chi molla” e fu repressa dall’esercito.
Con il finanziamento del Banco di Santo Spirito, Sforza Ruspoli ha costruito la Frazione di Cerenova Costantica del Comune di Cerveteri, tra la via Aurelia e la Ferrovia Roma-Civitavecchia. Seimila abitanti, la costruzione della grande chiesa dedicata a San Francesco e la costruzione della Stazione ferroviaria Marina di Cerveteri.
Nel 1989 che Sforza Ruspoli effettuò il gran passo in politica. Presentandosi come capolista indipendente del Movimento Sociale Italiano, venne eletto al Consiglio Comunale di Roma con 37.240 voti di preferenza, raccolti soprattutto nelle periferie. Nel corso del suo mandato raccolse l’unanimità dei consensi del Consiglio Comunale sul suo progetto di creare un Centro per raccogliere i senza fissa dimora in un grande edificio seicentesco di via Casilina Vecchia 19, che volle intitolare alla santa della Casata, Santa Giacinta Marescotti, la protettrice degli emarginati. Una Santa “rivoluzionaria” che trovava i modi più originali per raggiungere gli ultimi. Una volta mandò ad un carcerato un pesce cotto con all’interno una lettera dove parlava dello splendore di Dio. Riusciva ad intercettare tutti i bisognosi per i quali ha dato vita a due Confraternite, una dedicata ai malati e una ad anziani e inabili al lavoro. Santa Giacinta ripeteva sempre: “La povertà è una questione sociale e non individuale”.
Sforza Ruspoli affidò l’Opera a Mons Luigi Di Liegro per la Caritas romana. Non furono pochi gli ostacoli per portare in porto il progetto, ma con tenacia Sforza Ruspoli portò a compimento l’edificazione della Cittadella della Carità, collaborando con spirito di servizio all’opera di Mons Enrico Feroci, che ha fatto della Cittadella della Carità, la perla della Caritas romana, poi creato cardinale da Papa Francesco il 28 novembre 2020, assegnandogli la nuova diaconia di Santa Maria del Divino Amore a Castel di Leva, di cui è parroco, e della quale ha preso possesso il 24 maggio 2021.
L’azione politica in Campidoglio di Sforza Ruspoli anche se fu dedicata principalmente alla tutela della dignità dei cittadini più umili, lo vide in prima linea nella battaglia contro i Comitati d’affari. Le sue Crociate furono contro i potentati. Si impegnò contro la degenerazione pubblica, contro il modello di sviluppo fondato sui gruppi monopolistici pubblici e privati, quasi tutti falliti, l’errata politica delle banche, l’avversione per i compromessi di qualsiasi genere.
Risale al 30 novembre 1946, quando Sforza Ruspoli aveva solo diciannove anni, il suo matrimonio con Domitilla dei Duchi Salviati da cui nacquero due figlie, Claudia e Giada. Al 15 ottobre 1983 risalgono le nozze, a Vignanello, con Maria Pia Giancaro, la bella moglie che gli è stata accanto con amore fino alla fine. Dall’unione è nata Giacinta, stesso nome della Santa di famiglia, la terza figlia di Sforza Ruspoli che in virtù del suo 110 e lode in Giurisprudenza e l’acquisita professione di avvocato, è una brillante imprenditrice nell’ambito turistico.
«Che dire? Il passato, la storia, la civiltà, la memoria. Non che bisogna essere aristocratici per contenerli. Si “diventa” aristocratici conoscendo e amando quanto c’è da amare del nostro passato. Siamo natura e storia. Se perdiamo un aspetto, ci amputiamo. Se perdiamo entrambi, siamo finiti. E può accadere. Una volta, non ricordo l’occasione, ci recammo nel castello del Principe Sforza Ruspoli, a Vignanello. Che spettacolo: mura spesse, inferriate muscolose, torrioni, cortiletto interno, un Medioevo assolutizzato. Forse non ci rendiamo conto di chi siamo, di “chi è” l’Italia. Ah, sì: l’aristocrazia nel suo egocentrismo dinastico glorificava la Nazione. L’Italia, non l’avessimo avuta, perderebbe la massima arte del pianeta. Quando vedevo il Principe Sforza Ruspoli, e parlavamo, lo percepivo come individuo e come “storia”. Assolutamente, il futuro, il divenire. Ma come il mare, l’onda dietro che sospinge. Che possiamo fare, se non ricordare noi stessi a noi stessi. E ricordarla, Principe “Lillio” Sforza Ruspoli! XIII secolo! Oggi» (Antonio Saccà, 29 novembre 2022).